Yoram Taharlev (1938-2022)

Da Yeshnan Banot (C’erano ragazze) a Givat Hatahmoshet (Collina delle munizioni) le canzoni di Yoram Taharlev hanno segnato la cultura popolare israeliana. Centinaia i testi scritti per altri cantanti e poi diventati dei successi nazionali. Moltissimi dei suoi lavori si sono trasformati in colonne sonore per intere generazioni. “I testi delle sue canzoni e dei suoi scritti continueranno ad illuminare il nostro percorso e a raccontare la nostra storia”, l’ultimo saluto del Presidente d’Israele Isaac Herzog a Taharlev, scomparso nelle scorse ore a 84 anni.
Figlio di immigrati dalla Lituania, Taharlev era nato nel Kibbutz Yagur nel 1938. Nella sua biografia racconta di aver composto la prima poesia a sette anni e mezzo. E in un breve racconto, regala uno spaccato di cosa era allora il nascente Stato d’Israele. Come premio per quella prima composizione, scrive il cantautore, i genitori gli regalarono un taccuino su cui trascriverla e dove segnare da lì in avanti ogni suo lavoro. “Lo riempii di parole”, racconterà Taharlev. “I miei genitori mi diedero un posto speciale per tenere il quaderno: nel cassetto inferiore del loro armadio nella loro piccola stanza nel kibbutz. Mi dissero di venire a prenderlo (a quei tempi, noi bambini non vivevamo con i nostri genitori; vivevamo in case per bambini come parte dell’ideale socialista) ogni volta che sentivo di voler scrivere”. Il taccuino però scomparve nel corso di un’irruzione della polizia britannica nel kibbutz. Un’irruzione diretta a sequestrare armi illegali nascoste dai kibbutzniki. “L’armadio era stato capovolto al centro della stanza. Strisciai fino ad esso per recuperare il mio quaderno di poesie, ma non si trovava da nessuna parte. Cercai in lungo e in largo, senza successo. Per giorni ho inseguito ogni foglio di carta che vedevo soffiare nel vento nella speranza di poter recuperare anche solo una pagina del quaderno, ma non l’ho mai trovato e fino ad oggi non sono stato in grado di ricreare la mia prima poesia. – il racconto di Taharlev – Giurai a me stesso che da quel giorno in poi, non solo avrei copiato tutto quello che avevo scritto su un quaderno, ma l’avrei anche imparato a memoria in modo che nessuno potesse mai più portarmelo via”.
La prima canzone di successo, “Io, te e il vento”, arrivò nel 1964. Scritta sull’autobus che lo portava da Haifa a Tel Aviv, Taharlev racconta di averla dimenticata nel taschino della camicia. La celebre poetessa israeliana Nurit Zarchi, sua moglie all’epoca, la trovò per caso e lo convinse a proporla a qualche cantante. “La mandai all’unica persona di cui conoscevo l’indirizzo, Nachman Heiman, e dopo un tempo relativamente breve la canzone iniziò improvvisamente a risuonare alla radio”.
Da quel momento in poi, Taharlev scelse la sua strada, scrivendo senza sosta fiumi di componimenti, molti dei quali per le band dell’esercito. Tra queste la citata Givat Hatahmoshet: “Era la mattina del secondo giorno di guerra a Gerusalemme. / L’orizzonte diventava pallido a est. Eravamo nel mezzo della battaglia sulla collina delle munizioni. / Stavamo combattendo da tre ore. / Era una battaglia ostinata. /Assassina”. Sono le prime strofe di una canzone che narra la celebre e cruda battaglia del 1967 contro i giordani a Gerusalemme Est. Un passaggio della Guerra dei sei giorni diventato simbolo dell’eroismo nazionale. “È la canzone più ‘combattente’ che io abbia mai scritto. – ricorda su suo sito il cantautore – Tutte le citazioni che vi compaiono sono tratte dal settimanale ‘BaMahane’ (rivista dell’esercito) dove sono stati intervistati i combattenti della battaglia di Givat Hatahmoshet. Penso che la canzone abbia tratto la sua forza da queste interviste, molto più che dal testo che ho scritto. L’autenticità di quelle parole, credo, impedisce a questa canzone di diventare obsoleta anche dopo quarant’anni, quando molte delle idee espresse nelle canzoni di guerra hanno perso rilevanza”.

Il primo ministro Naftali Bennett, alla notizia della scomparsa di Taharlev, ha evidenziato come “le sue canzoni hanno accompagnato il nostro paese per anni, nella tristezza e nella felicità, in tempo di guerra e di pace. È morto, ma il suo lavoro rimarrà con noi per sempre. Che la sua memoria sia una benedizione”.

dr