L’intervista all’ambasciatore Alon Bar
“Con l’Italia c’è molto potenziale”

La simbolica coincidenza quest’anno tra Yom HaAtzmaut, il giorno dell’Indipendenza d’Israele, e il 25 aprile, Festa della Liberazione, è un’occasione per fare il punto sui legami tra i due paesi e per analizzare le prospettive di queste relazioni. Ma anche per capire dove si trova oggi Israele. A farlo con Pagine Ebraiche la voce autorevole dell’ambasciatore israeliano a Roma Alon Bar, che analizza anche lo stato di salute della democrazia dello Stato ebraico.

È stato uno Yom HaAtzmaut diverso per Israele. Il paese vi è arrivato con forti contrasti interni e un dibattito molto acceso. Come valuta questa situazione?
Parlo con molte persone in Italia che seguono il dibattito in Israele. E mi sembra di sentire, sia a destra che a sinistra, molta ammirazione per il modo in cui la democrazia israeliana si sta esprimendo e per il fatto che la gente sia così coinvolta nel rispondere alle iniziative del governo. Siamo di fronte a un confronto duro, ma positivo. Credo rappresenti una buona opportunità di dialogo al nostro interno così come con i Paesi democratici nostri alleati. E sono convinto che alla fine di tutto questo dibattito sulla riforma, Israele verrà fuori più forte.

Il dibattito israeliano tocca anche l’ebraismo della Diaspora. In Italia, ad esempio, si sono levate sia voci di critica che di sostegno. Come si pone davanti a questo coinvolgimento?
Come ambasciatore a Roma sono molto consapevole del forte legame della comunità ebraica italiana con Israele. E questo include anche l’attuale dibattito all’interno del paese. Quando il dibattito è molto teso come lo è oggi, si riflette anche sulla Comunità qui. Ma in fin dei conti parliamo di una discussione importante sulla nostra identità per cui, a 75 anni dalla nostra fondazione, stiamo ancora lottando. A volte i toni non sono piacevoli, ma è anche così che si esprime la vitalità del carattere democratico di Israele. E credo sia importante che gli ebrei di tutto il mondo partecipino a questo dialogo, esprimano le proprie opinioni. Se vogliamo continuare a godere del fortissimo sostegno delle comunità ebraica, dobbiamo anche ascoltarle quando sono preoccupate.

Da quando ha assunto il suo ruolo a Roma si sono avvicendati i governi sia in Italia sia in Israele e c’è stato una scambio di visite di alto livello. A che punto sono le relazioni tra i due paesi?
C’è un rapporto solido che va indietro nel tempo e tocca diversi ambiti. Negli ultimi mesi si è sviluppato però il potenziale per aumentare significativamente le relazioni a un livello diverso e più alto. C’è molta simpatia tra le due leadership. Il Primo ministro Netanyahu è stato in Italia, uno dei pochissimi Paesi che ha visitato dopo essere stato eletto. Il ministro degli Esteri Tajani ha visitato Israele. Il presidente della Knesset Amir Ohana e il ministro dell’Innovazione Ofir Akunis sono stati a Roma. Auspichiamo di trovare un’intesa quest’anno per organizzare a Gerusalemme il vertice intergovernativo, una buona piattaforma per firmare accordi e fare progressi.

Dove pensa si possano fare questi progressi?
Ci sono tre aree principali. Il primo è quello dell’energia. In particolare l’esportazione del gas israeliano, che può essere portato in Italia sia tramite gasdotto che tramite gas naturale liquefatto. Qui speriamo in un maggiore coinvolgimento di Eni e del governo italiano.
La seconda area è l’acqua. Israele è già molto attivo nell’offrire la sua esperienza nella capacità di gestione della risorsa, condividendo know-how, ma anche tecnologie che possono essere introdotte in Italia. A fine giugno avremo un summit sull’acqua in Puglia.
Terzo punto la cooperazione in materia di sicurezza e di difesa nel Mediterraneo, dove penso che si veda il crescente interesse ad aumentare la collaborazione con Israele come parte del cambiamento che tutti i Paesi europei stanno attraversando nell’investire di più nella propria sicurezza nazionale e continentale. Poi ci sono molti altri settori di cooperazione: dallo spazio all’accademia, dal mondo dell’innovazione all’agricoltura

E nelle sedi internazionali c’è una evoluzione nei legami con l’Italia?
Il governo italiano e i suoi rappresentanti nelle istituzioni dell’Onu hanno espresso nei loro discorsi, ma anche nel voto, un cambiamento rispetto alle posizioni passate sui temi che ci riguardano. Più favorevole. Roma ha espresso chiaramente di voler sostenere di più Israele in seno alle Nazioni Unite. Un’evoluzione che ha coinvolto, in misure diverse, anche altri paesi europei.

Vede un cambio di atteggiamento generale all’Onu?
Penso che se si guarda al mondo multilaterale, al sistema delle Nazioni Unite, bisogna riconoscere che la sistematica discriminazione contro Israele non ha realmente cambiato o contribuito a migliorare la situazione dei palestinesi o a cambiare la situazione sul terreno. Quel che ha fatto è stato solo minare in modo significativo la credibilità dei meccanismi Onu, percepiti, a mio avviso giustamente, come fortemente prevenuti nei confronti di Israele, estremamente unilaterali, che non rappresentano la complessità del dialogo, ma piuttosto coinvolti nella demonizzazione e nella polarizzazione della posizione. E posso fare un esempio in merito.

Quale?
La Relatrice speciale dello Human Rights Council, Francesca Albanese. Prima di essere nominata nel suo incarico, ha detto che Israele dovrebbe essere processato dalla comunità internazionale, che è uno stato di apartheid, che è coinvolto in crimini di guerra. Ora, ogni persona ha diritto alla propria opinione. Ma se si ha questo pregiudizio non si può ricoprire un ruolo che le stesse regole dell’Onu sanciscono come imparziale. È un abuso nei confronti di qualsiasi trattamento equo della questione. E infatti la persona che prima di diventare relatrice dell’Onu diceva che Israele compie crimini di guerra poi, entrata in carica, scrive la stessa cosa nel suo rapporto. Il danno qui è alla credibilità delle Nazioni Unite e anche a palestinesi e israeliani perché questa demonizzazione, come dimostra la realtà, non porta a nessun risultato.

A proposito di palestinesi, c’è stata un’escalation di violenza in questi mesi e il dialogo tra le parti sembra impossibile. Qual è la situazione?
Le nostre relazioni storiche con i palestinesi non sono in buone condizioni. Siamo vicini a un anno di crescente ondata di terrorismo, con l’influenza dell’Autorità Palestinese sempre minore. In particolare su alcune aree, come Jenin e altri luoghi in Giudea e Samaria, dove si registra la crescita di cellule terroristiche. Penso che al momento le attuali leadership, sia israeliana che palestinese, non abbiano molti punti in comune per il negoziato. E credo che in questa fase siano più concretamente preoccupate di cercare di stabilizzare la situazione. E con questo intendo mantenere le linee di dialogo, la cooperazione in materia di sicurezza, ma anche migliorare la situazione economica e fiscale dell’Anp, migliorare l’accesso dei palestinesi al lavoro e a guadagnarsi da vivere in Israele e all’interno del territorio palestinese. Molti sforzi sono diretti a questo scopo. Incoraggiamo anche il sostegno internazionale ai palestinesi, purché sia diretto a migliorare la vita dei cittadini, la situazione industriale ed economica e a incoraggiare il dialogo con Israele. Siamo preoccupati per alcuni fondi internazionali, compresi quelli europei, che finiscono nelle mani di persone che cercano di promuovere la violenza e lo scontro. Pensiamo che ci debba essere un controllo importante per assicurarsi che i fondi europei arrivino a chi promuove gli obiettivi, non israeliani, ma europei, di convivenza e dialogo.

Tornando all’Italia, una delle sfide in cui siete coinvolti come ambasciata è il contrasto all’antisemitismo.
Vedo nel paese una crescente disponibilità a guardare al passato dell’Italia come parte del problema e ad assumersi maggiori responsabilità per quanto accaduto durante il regime fascista. Vedo un crescente interesse nella volontà di tutta la società italiana, compreso il governo, di combattere l’antisemitismo e di collaborare con la comunità ebraica per affrontare i casi di discorsi d’odio espressi utilizzando simboli fascisti o nazisti. Non credo che l’antisemitismo sia scomparso. Ci sono ancora parti della società che, per tradizione o per ragioni diverse, guardano negativamente agli ebrei e gli attribuiscono ogni elemento negativo. Ma abbiamo partner validi e importanti con cui lavorare per affrontare queste tendenze.

Daniel Reichel

 

“Credo ancora nei valori del kibbutz”

Classe 1957, l’ambasciatore Alon Bar è nato nel kibbutz Sasa, realtà dell’Alta Galilea fondata nel 1949 da un nucleo americano del movimento Hashomer Hatzair. Sasa è una realtà piccola: 400 persone circa, con famiglie legate ai fondatori del kibbutz, un nucleo israeliano posteriore e un nucleo dell’Hashomer Hatzair proveniente da alcuni paesi europei tra cui l’Italia. “Ricordo ancora l’arrivo degli italiani nel kibbutz. È stata una bella iniezione di energia”, ricorda Bar. Alla luce di questo passato da kibbutznik del diplomatico, una delle domande del colloquio con Pagine Ebraiche verte sul ruolo della realtà dei kibbutzim nella società israeliana. Un tempo punto di riferimento, oggi in ripresa dopo una grave crisi. “Il movimento dei kibbutz fa parte ancora del paese, ma il suo ruolo ha subito cambiamenti radicali. All’inizio erano la rappresentazione dell’Israele socialista, poi hanno vissuto un’importante liberalizzazione e hanno avuto una svolta capitalista, necessaria per sopravvivere. Alcuni elementi si sono conservati: l’impegno per la comunità, per la condivisione, per mantenere lo stesso tenore di vita. Lo sforzo affinché le decisioni all’interno del kibbutz vengano prese in maniera collettiva, evitando divisioni”. Una parte importante della leadership israeliana del passato veniva da questo mondo. Si pensi a Golda Meir o Moshe Dayan. “Il legame con il governo dei kibbutzim non fa più parte della storia di Israele. Hanno dovuto trovare la propria strada attraverso l’agricoltura e altre industrie e il coinvolgimento in start-up, come il resto della società israeliana, per garantirsi la capacità di mantenere il proprio stile di vita. Come si è visto, essere socialisti richiede molte abilità finanziarie”. Ma il segno valoriale, aggiunge l’ambasciatore Bar, è intatto. “Credo ancora nei valori del movimento dei kibbutz. L’informalità, il dare valore alla persona in base a ciò che fa e a ciò in cui è coinvolta, e non in base ai genitori, al suo background o alla sua eredità. E poi considero importante il coinvolgimento volontario nella società e nella vita comunitaria. Io non faccio più parte del kibbutz, ma una parte della famiglia sì. Ci vado spesso ed è una realtà che rappresenta una variante importante, ma in evoluzione, della società israeliana. Una realtà che continua a esercitare una certa attrattiva sulle persone”.