“La democrazia non è un dogma statico, l’ebraismo può aiutare a ripensarla”
Dopo la pausa delle festività, sono ripresi i colloqui per arrivare a un compromesso sulla riforma della giustizia promossa dal governo Netanyahu. Nel frattempo le manifestazioni contrarie alle proposte della maggioranza sono proseguite, toccando quota diciotto settimane consecutive. E ci sono state anche iniziative di piazza a favore della riforma, che, nella versione attuale, modificherebbe in modo sostanziale l’assetto democratico del paese. Per i contrari, distruggendo il bilanciamento tra i poteri a favore della maggioranza e a danno del giudiziario; per i favorevoli, riequilibrando la situazione a fronte di una Corte suprema considerata troppo invadente. Uno scontro tra posizioni diametralmente opposte che sta creando delle vere fratture, sottolinea a Pagine Ebraiche Gabriele Segre, direttore della Fondazione Vittorio Dan Segre e studioso di politica israeliana e internazionale. Ma per Segre queste fratture possono essere un’opportunità per il paese – e non solo – per ripensare a cosa ci sia dietro alla parola che entrambe le piazze invocano: “democrazia”. “Quanti di coloro che gridano ‘democrazia’ durante le manifestazioni in Israele
sanno realmente di cosa parlano?”, l’interrogativo da cui muove la riflessione di Segre. “È una domanda che abbraccia un po’ tutte le società occidentali in questa fase. Noi tutti infatti abbiamo innalzato il concetto di democrazia a una sorta di verità intrinseca, a un nuovo dogma, a una certezza immutabile e non discutibile. Abbiamo un’idea definita e definitiva”. Eppure la democrazia è un sistema dinamico. “È un processo che cambia. Anzi, che deve cambiare per avere la possibilità di maturare ed evolvere insieme con la volontà della società. Quindi non può essere dogmatico”. Chi invece manifesta a favore o contro la riforma in Israele “non sembra avere chiaro questa necessità di evoluzione”. Un dato, rileva Segre, che non è marginale. “Se è vero che ci sono pericoli esterni per la democrazia – lo vediamo in Ucraina -, ci sono anche pericoli endemici. E tra questi, a mio avviso, il principale è non considerarla come un processo dinamico, complesso, partecipato, frutto di una costante discussione”. Senza questa consapevolezza – che tocca Israele, ma anche il resto dell’Occidente – ci si trova di fronte a un impianto di società e di comunità che accoglie sì i principi e valori democratici, ma lo fa senza una discussione partecipata, senza un coinvolgimento dal basso. E quindi, evidenzia Segre, quegli stessi principi e valori rischiano di essere più fragili perché trasmessi in modo dogmatico.
Da qui il pericolo per l’intero impianto democratico “sia in Israele quanto nel resto del mondo. Ma anche l’opportunità”. Per il direttore della Fondazione Dan Segre infatti quanto accade nelle piazze israeliane può rappresentare un punto di svolta, soprattutto per un elemento che caratterizza questa società: l’identità ebraica. “Israele ha un vantaggio a livello culturale endemico che è l’ebraismo. A differenza di altre religione, l’ebraismo parte sì da una condivisione di principi e valori definiti e dati, che è fondamentalmente la parola di Dio, ma è diverso il processo di avvicinamento, di comprensione, assimilazione e mantenimento di questi insegnamenti. Perché questo processo si è sempre fondato su un rapporto dialettico, di ingaggio, di partecipazione alla discussione. L’ebraismo, nel suo lavoro di comprensione della Torah, pone al centro la domanda, il dubbio. Quindi al fianco di valori e principi condivisi e che non sono messi in discussione, c’è anche un processo critico costante sui contenuti e sulla forma. C’è un’interpretazione che evolve seguendo l’evoluzione della cultura e della sensibilità della società umana”. Questo procedere nel corso dei millenni con un metodo che pone al centro la domanda, il dubbio, la dialettica, il pensiero critico, afferma Segre, “è una delle ragioni per cui l’ebraismo è riuscito a tenere vivo nel tempo il valore dei suoi principi fondamentali. Cioè non c’è una fede sconfinata, ma siamo di fronte a un lavoro e una scelta costante”. Si tratta, la sua riflessione, di un procedimento pedagogico che è molto vicino a quello della costruzione di una cultura democratica. E per questo Israele, nel suo essere Stato ebraico e democratico, è il luogo adatto dove “immaginare un nuovo collettivo. Dove ripensare l’idea di democrazia che risponda alle esigenze del presente e del futuro”.
Dunque non gridare solamente da una piazza all’altra “Democrazia”, ma interrogarsi attivamente – alla luce del metodo ebraico della domanda – sul suo significato per noi oggi. “Per me la domanda da cui partire e che ogni singolo deve porsi, che sia contro o a favore della riforma, che sia religioso o laico, è: che cosa hai paura di perdere? Solo verbalizzando, definendo e condividendo le paure delle persone diventa chiara l’urgenza della partecipazione”. E da qui si può proseguire per la “costruzione di un immaginario collettivo che riesca a fare sintesi tra le diverse paure”, ma che non sia percepito come definitivo. Bensì in costante evoluzione come, l’analisi di Segre, deve essere la democrazia. “In altri termini, la democrazia deve essere in qualche maniera sfuggente quanto lo è Dio”.