Scontro politico, danno reale
all’economia d’Israele

Lo scorso 14 aprile l’agenzia di rating Moody’s ha annunciato di avere modificato negativamente la sua valutazione del merito di credito dello Stato di Israele e, più in generale, il suo giudizio sulle prospettive dell’economia israeliana: il rating del debito pubblico israeliano è rimasto al livello A1, che è elevato nel confronto internazionale, ma le “prospettive” del rating, che prefigurano possibili mosse future dell’agenzia, sono passate da “positive” a “stabili” (il gradino successivo è “prospettive negative”). L’agenzia ha motivato il provvedimento con l’indebolimento della “governance” del paese, ossia la “buona gestione”: a preoccupare l’agenzia vi è sia il contenuto della riforma del sistema giudiziario promossa da Netanyahu, che sottomettendo il potere giudiziario al Governo e al Parlamento renderebbe Israele meno affidabile e appetibile per gli investitori, sia la modalità non maggioritaria e non consensuale con cui la nuova legislazione è in corso di approvazione. Tale modalità “coercitiva” starebbe minando la solidità delle istituzioni e rendendo le politiche e l’azione del Governo meno prevedibile.
A rincarare la dose nel giudizio dell’agenzia vi è un apprezzamento, non troppo velato e del tutto inusuale, dei moti di piazza contro il governo: “La società civile e altre istituzioni come l’establishment militare e della sicurezza si sono dimostrati degli assai efficaci organi di controllo (‘checks’) sull’esercizio del potere da parte del governo”.
Ma i rischi per l’economia israeliana evocati dagli oppositori interni della riforma e dalle agenzie di rating sono ancora allo stato potenziale o si sono già materializzati? Purtroppo i primi effetti negativi sono già visibili in numerosi indicatori e sono inequivocabili. In primo luogo si è svalutato il cambio dello shekel: interrompendo una tendenza all’apprezzamento che andava avanti da anni e che veniva vista con preoccupazione dalle autorità, dall’inizio di novembre (data delle elezioni) alla fine di aprile il cambio con l’euro è passato da 3,5 shekel per un euro a 4 shekel, un deprezzamento di oltre il 10 per cento. Nello stesso arco di tempo l’indice azionario israeliano ha perso il 10 per cento, a fronte di un aumento del 7 di quello americano. Il costo di una protezione assicurativa (“credit default swap”) contro un’ipotetica insolvenza del Tesoro israeliano è salita dallo 0,4 allo 0,6 per cento l’anno (da 4.000 a 6.000 dollari per milione di dollari). Infine, un segnale molto eloquente arriva dal mercato immobiliare: dall’inizio dell’anno si è osservato per la prima volta in molti anni un calo dei prezzi e delle compravendite di abitazioni in tutto il paese, compresa Tel Aviv. Questo potrà far piacere alle famiglie che cercano casa ma, unitamente agli altri indicatori sopra menzionati, segnala in modo inequivocabile un calo degli investimenti esteri e interni. In particolare sarebbe in corso un rallentamento del settore high tech, che di solito traina il mercato azionario e quello immobiliare: gli imprenditori di questo settore sono stati non a caso i primi a criticare il Premier Netanyahu e ad annunciare il trasferimento all’estero delle loro attività e dei loro fondi.

Aviram Levy, economista