Bring Hersh Home
“La più crudele delle domande che ognuno di noi si sente rivolgere ogni giorno, senza alcuna cattiveria, è: ‘Come stai?’”. Davanti ai rappresentanti delle Nazioni Unite, Rachel Goldberg-Polin, ha descritto la tragedia delle famiglie sconvolte dall’attacco di Hamas del 7 ottobre scorso. Suo figlio, Hersh, 23 anni, è stato rapito dai terroristi e portato a Gaza gravemente ferito. “Immaginate vostra madre e poi immaginate che le venga detto che ci sono solo due opzioni. O sei morto o sei stato portato a Gaza sotto la minaccia delle armi dopo che hai perso un braccio in un’esplosione. Nessuno sa dove sei; se sei morto dissanguato in quel pick-up 18 giorni fa; o se sei morto ieri; o se sei morto 5 minuti fa. Immaginate vostra madre, e queste sono le sue uniche due opzioni quando le chiedete ‘come stai?‘”.
Hersh è da venti giorni nelle mani di Hamas. Con lui, imprigionati nella Striscia di Gaza, ci sono almeno altri 223 ostaggi, secondo le ultime notizie diffuse dall’esercito israeliano.
Il giovane, nato in California, era al festival musicale di Re’im il 7 ottobre scorso insieme ad altri amici. Quando c’è stato l’attacco si è rifugiato in un bunker con una trentina di persone. “Per un’ora Hamas ha lanciato contro di loro delle granate. Un altro nostro amico che era con Hersh è morto respingendone una”, racconta a Pagine Ebraiche Arturo Cohen da Gerusalemme. “Dei 30 e più ragazzi che erano dentro quel bunker, i più sono morti, e Hersh e altri cinque sono stati portati a Gaza”. Il tutto è stato ripreso da Hamas: in una delle immagini il giovane appare senza una mano sinistra. “Ha un laccio emostatico al braccio e lo si vede salire da solo su un pick-up, il che fa sperare sia vivo”, afferma Cohen. Una speranza attorno a cui si è costruita una grande mobilitazione, a partire dai genitori, dagli amici e dai tifosi della squadra di calcio Hapoel Gerusalemme. “Hersh è parte della curva dell’Hapoel. È un ragazzo pieno di vita, di sogni, di curiosità ed è impegnato da anni nel mondo dell’antirazzismo”, racconta Cohen. I due condividono, oltre l’amicizia, la passione calcistica. “Lui è la nostra enciclopedia vivente sul mondo degli stadi. Non c’era trasferta in cui non snocciolava dettagli assurdi sul pubblico di casa o qualche aneddoto del passato. Non c’è tifoseria in Europa di cui non conosca i trascorsi, le tradizioni e le posizioni politiche”. Dal giorno del rapimento, il tifo si è trasformato in una forma di sostegno alla famiglia. La curva dell’Hapoel ha organizzato raccolte fondi e una campagna per chiedere la liberazione di Hersh. Anche tifosi di altre squadre, come il Werder Brema, hanno aderito, sottolinea Cohen. “Fanno parte dell’area della sinistra antifascista tedesca, con molta sensibilità verso Israele. Per Hersh stanno portando avanti un enorme campagna di sensibilizzazione”. Su striscioni, graffiti e manifesti, da Gerusalemme a Brema, appare la scritta “Bring Hesh Home” affiancata al volto sorridente del ragazzo. Sul New York Times la madre Rachel il 13 ottobre raccontava di aver pianto per i messaggi arrivati dai tifosi e amici del Werder Brema. Con loro il figlio aveva “dipinto un murale della pace con i residenti arabi ed ebrei vicino alla nostra casa a Gerusalemme”. La visita di questi ragazzi tedeschi, aggiungeva Rachel, l’aveva particolarmente colpita “perché Hersh porta il nome di mio nonno Harold e del mio prozio Hershel, uccisi durante la Shoah. È stato bello per me ricordare, attraverso queste amicizie, che per i giovani tedeschi ed ebrei” il mondo oggi è diverso. Ma poi c’è stato il 7 ottobre. “Non avrei mai potuto immaginare che mio figlio avrebbe affrontato qualcosa di simile a quello che ha affrontato Hershel. Questo è il nuovo mondo in cui Hersh e tutti noi dobbiamo vivere”.
La campagna per liberare lui e tutti gli altri continua senza sosta. “Ci manca ogni secondo, in ogni respiro, in ogni azione quotidiana, la vita è stata stravolta e il dolore non è spiegabile”, ribadisce Cohen. “Torna a casa Hersh”.
(Foto Brigade Malcha – Hapoel Gerusalemme)