LIBRI – Giacomo Leopardi e l’ebraico: la storia di un amore e i versi in ivrit

È risaputo come nella biblioteca di Giacomo Leopardi ci fossero vari libri in ebraico, tra cui una Bibbia poliglotta, che il poeta iniziò a sfogliare all’età di 15 anni. La lettura destò una profonda impressione nel giovane Leopardi, che da autodidatta imparò la lingua e si dedicò ad alcune prove di traduzione. Diverse osservazioni sull’ebraico appaiono poi tra le pagine dello Zibaldone. Una miniera di spunti anche in questo senso. Ben pochi però, anche tra i critici più autorevoli, se ne sono occupati. Colma una lacuna Miriam Kay ne “La più antica immaginazione. Leopardi e l’ebraico” edito da Marsilio, che riprende e sviluppa la tesi di laurea in Filologia Moderna discussa all’Università La Sapienza di Roma da Kay nel 2020. L’apprendimento dell’ebraico arrivò insieme al greco. «Entrambe queste lingue potevano vantare un prestigio e un bagaglio culturale senza pari nell’occidente cattolico», spiega Kay. «Acquisirne la padronanza permetterà a Leopardi di studiare direttamente i testi in originale, coglierne le particolarità e le sfumature semantiche, e infine di tradurli secondo la propria sensibilità».
In questo affascinante filone di studi mancava finora una traduzione di Leopardi dall’italiano all’ebraico. Ci ha pensato il fiorentino Roberto (Reuven) Cohen, classe 1941, in Israele dall’età di otto anni. Cohen si è dedicato alla parte più conosciuta della produzione leopardiana in versi: i Canti, composti dal 1818 al 1836. Canti ovvero “Shirim”, come si legge nella copertina del suo volume fresco di stampa, che si pone in continuità con una poderosa “fatica” del recente passato: la traduzione in ebraico della Divina Commedia. Ci ha lavorato per circa un decennio, mosso da un intento umanistico e divulgativo. Lo stesso che dal “ghibellin fuggiasco” Dante l’ha portato al più sedentario, ma non meno immaginifico Leopardi. «Sono molto legato all’Italia. L’ho lasciata che ero un bambino, ma mi è rimasta nel cuore», racconta Roberto, che abita a Gerusalemme, ma ha un passato di vita in kibbutz. Leopardi, sottolinea, «era un gigante e ha saputo vedere lontano, oltre l’orizzonte più stretto». Al pari di Dante o del suo amico Guido Cavalcanti, di cui pure sta affrontando i testi in vista di una possibile traduzione. Cohen sta ristudiando anche Torquato Tasso. In particolare l’Aminta, la favola pastorale scritta dall’autore della “Gerusalemme liberata” quando non aveva ancora trent’anni.
Dell’ultima “liberazione” Cohen è stato d’altronde tra i protagonisti, combattendo con l’esercito israeliano nella Guerra dei Sei Giorni e poi di nuovo in quella dello Yom Kippur. Nel primo conflitto fu ferito in modo grave nei pressi della Porta dei Leoni a Gerusalemme. «Pensavo che fosse arrivato il mio momento. Si vede che non era destino», sorride al tavolo di uno dei caffè del quartiere Hamoshava Hagermanit dove abita e lo incontriamo. Il piccolo Roberto non aveva ancora tre anni quando fu costretto a nascondersi per via delle persecuzioni nazifasciste. Insieme ad altri bambini ebrei trovò accoglienza in un convento di Settignano, nelle colline intorno a Firenze. In un futuro prossimo «vorrei tornare a visitarlo, con figli e nipoti».

(Nell’immagine: Roberto Cohen)