STORIA – Giuntini rilegge il Novecento ebraico con il prisma dello sport

Sergio Giuntini, il presidente della Società Italiana di Storia dello Sport, cita Primo Levi. Anche nello sport europeo, racconta, vi è «una moltitudine di sommersi e salvati». Storie di cui non possiamo ignorare il contributo affinché vicende individuali e collettive spesso dimenticate non si perdano nell’oblio e illuminino il nostro presente, aiutandoci anche a capire come certe parole d’odio attecchirono nelle società che si credevano più progredite, fino alle conseguenze più devastanti. Rileggere l’antisemitismo otto-novecentesco attraverso il prisma sportivo «può forse apparire ad alcuni poco appropriato, quasi irrispettoso», dichiara lo studioso. Eppure «questa chiave interpretativa si dimostra tutt’altro che bizzarra».
Lo conferma il suo ultimo lavoro “Storia dello sport ebraico in Italia e in Europa. Dal Muskelijudentum alla Shoah”, edito da Aracne, in cui l’autore tratteggia oltre un secolo di ideali e passione, partendo da Levi e da una sua poesia del 1984 dedicata alla massacrante fatica del decathlon «per farne una metafora dell’umano sopravvivere», dall’ideale sionista declinato nello sport e dalla straordinaria epopea dell’Hakoah Vienna, squadra ebraica vincitrice di uno scudetto in un’epoca in cui gli austriaci dettavano legge nel calcio. Un’epopea ricostruita nei suoi tratti salienti, con la precisione e l’accuratezza dello storico.
Nelle pagine del saggio di Giuntini si sviluppano anche altre grandi storie di sport, dai fermenti che portarono alla nascita del Maccabi in un’Europa incamminata a passi spediti verso il baratro, alle imprese di alcuni atleti ebrei italiani che si distinsero ai massimi livelli, come il pugile romano Leone Efrati vicecampione del mondo dei pesi piuma nel 1938 e il ginnasta ferrarese Gino Ravenna che fu in lizza alle Olimpiadi di Londra del 1908, entrambi assassinati nella Shoah. Identica sorte per uno dei pionieri del calcio nostrano: Raffaele Jaffe, fondatore del Casale.
Giuntini porta alla luce documenti poco noti. Il capitolo su “Sport ed ebraismo in Italia” si apre ad esempio con l’analisi di un interessante intervento del medico della Clinica di malattie nervose dell’università di Padova, Edgardo Morpurgo (1872-1942), che a un Congresso sionistico d’inizio Novecento dichiarò la propria adesione al Muskelijudentum caro al leader sionista Max Nordau, secondo il quale «il sionismo restituisce nuova vita all’ebraismo, corporalmente attraverso lo sviluppo dell’educazione fisica». Nello stesso solco Morpurgo dichiarò l’urgenza di promuovere conferenze e pubblicazioni «con lo scopo di educare e persuadere, specialmente le madri israelite, sulla necessità di provvedere ad una razionale educazione fisica dei bambini», oltre a favorire «l’insorgenza di asili infantili israelitici, promuovendo la formazione di ospizi marini e di colonie alpine». L’opera di “proselitismo” di Morpurgo continuò anche su organi di stampa ebraici, con risultati non sempre corrispondenti alle aspettative.
Tra le realtà più dinamiche anche se effimere vi fu il Fascio Giovanile Ebraico triestino costituito il 29 marzo 1919, che chiuse le proprie attività otto anni dopo. Nell’autunno del 1938, con la promulgazione delle leggi razziste, il fascismo mise al mando anche lo sport ebraico. Ne fecero le spese tra gli altri gli odiati “allenatori danubiani”, molti dei quali ebrei, che la propaganda del regime accusò «di vendere fumo con quell’arte imbonitoria propria della razza» cui appartenevano, come si lesse sulle pagine del settimanale Il Calcio Illustrato. Nell’elenco delle vittime uno dei più grandi maestri di pallone di sempre, l’ungherese di nascita ma italiano d’adozione Arpad Weisz, poi ucciso in lager. 

a.s.