USA – Shrayer contro l’antisemitismo in versi

«L’attivismo “poetico” è parte di una campagna letteraria nazionale di diffamazione e ostracismo in cui artisti e intellettuali ebrei vengono intimiditi e costretti a scegliere pubblicamente da che parte stare – a favore o contro Israele – oppure a restare in silenzio». Così scrive Maxim D. Shrayer, autore bilingue nato a Mosca ed emigrato negli USA nel 1987, professore al Boston College. In un articolo pubblicato il 3 aprile sul Tablet, intitolato “Poesia dopo il 7 ottobre – Le arti stanno diventando una fogna a cielo aperto alimentata dall’odio antisemita. Come possiamo continuare a pubblicare e creare?”, Shrayer spiega che «l’orrore di ciò che sta accadendo nelle nostre arti e nelle nostre lettere dovrebbe essere chiaro a qualsiasi persona pensante». E poi elenca una serie di avvenimenti: il 10 febbraio, “Writers Against the War in Gaza” e la sezione di New York del “Movimento giovanile palestinese” hanno fatto chiudere il MoMA, il Museo di Arte Moderna, accusando gli amministratori del museo, alcuni dei quali ebrei, di finanziare il genocidio, di apartheid e di colonialismo. Una delle tante proteste che secondo Shrayer hanno mostrato come gli attivisti non provino neppure più a farsi passare per “anti-Israele” ma siano chiaramente antisemiti. Proteste anti-israeliane si sono verificate alla conferenza dell’Associazione degli scrittori a Kansas City, dove tutti gli organizzatori dei panel – eccetto quelli che erano ovviamente ebrei o il cui panel aveva un tema ebraico – sono stati «esortati» a «riconoscere il genocidio in corso a Gaza». Scrittori, redattori ed editori hanno subito pressioni mirate a «boicottare le istituzioni letterarie sioniste» (tra cui PEN America e la Poetry Foundation). È importante, secondo Shrayer, fare caso al collegamento che esiste tra la performance pubblica contro Israele e contro il sionismo di un poeta americano, le proteste antisioniste dei lavoratori della cultura e le crescenti e aperte ostilità nei confronti di autori, redattori, editori ebrei, e dei loro soci non ebrei. In una lettera aperta che ha raccolto circa 1.500 firme si scrive che con la scelta di Mayim Bialik, definita “persona impegnata nell’ideologia razzista del sionismo”, il PEN America sta perpetuando visioni pericolose e fasciste e offre una tacita approvazione al regime sionista, razzista e genocida. Richard Michelson così ha riassunto le sue preoccupazioni: «Molti poeti ebrei si sentono abbandonati dalla comunità letteraria. Altri hanno paura di parlare apertamente. (…) Sono deluso da coloro che hanno condannato il bombardamento indiscriminato di Gaza (che merita condanna), ma si rifiutano di condannare allo stesso modo lo stupro e il massacro di israeliani innocenti che partecipano a un festival musicale. (…) Si suppone che i poeti diano valore alle parole e ne comprendano le sfumature, e mi preoccupo quando vedo scrittori che stimo e apprezzo prestare il loro nome a slogan antisemiti». Ci sono poeti ebrei che tacciono, stringono i denti e sperano il clima ostile si plachi. Altri immaginano di ritirarsi in spazi culturali ebraici. Un terzo scenario offre un ritorno ebraico alla poesia civica, e profetica, dedicata a un pubblico vasto. Il poeta Robert Pinsky, in “When Language Fails Us and the Moment” ha scritto: «Termini come ‘genocidio’ e ‘patriottismo’, ‘antisemitismo’ e ‘democrazia’ trasmettono importanza, ma evitano prestare davvero attenzione (…) Più importante è il significato, più difficile è il lavoro».