7 OTTOBRE – I famigliari degli ostaggi: la gente ci capisce, media e governi no
Sono passati 186 giorni da quando Guy Gilboa Dalal è stato rapito da Hamas durante il festival musicale di Re’im. Oltre sei mesi in cui il tempo per la sua famiglia si è congelato. «Immaginate passare anche solo un giorno sapendo che vostro figlio è in mano a degli assassini. In mano a terroristi che hanno ucciso, violentato, bruciato civili innocenti. Io sono paralizzata dalla paura. Per me non esiste giorno, non esiste notte. Dov’è il mio Guy? Quando tornerà a casa?». L’inglese di Meirav è affaticato dall’emozione. Ma la sua richiesta è chiara: «Aiutatemi. Aiutateci a riavere i nostri cari». Lei, suo figlio Gal e altri parenti di ostaggi sono arrivati a Roma per questo. Per sensibilizzare l’Italia sul destino dei 133 israeliani ancora prigionieri dei terroristi palestinesi. «Vi chiediamo un aiuto per riportarli a casa», afferma Meirav, tenendo in mano una foto di Guy. È l’immagine di un 22enne terrorizzato, il volto tumefatto, rinchiuso da qualche parte a Gaza da 186 giorni. «Abbiamo ancora speranza. La strada migliore per la sua liberazione sono i negoziati e penso un accordo sia vicino. Ma non siamo politici e non abbiamo molte informazioni», afferma Gal. Sulla sua maglietta c’è una foto di com’era Guy prima del 7 ottobre: un ragazzo sorridente e spensierato.
Sono cinque le famiglie degli ostaggi in visita in questi giorni nella capitale. Hanno incontrato ministri del governo italiano e il papa. A tutti è stata fatta la stessa richiesta: «Aiutateci». A tutti hanno raccontato le storie dei loro parenti: Omri Miran, Agam Berger, la famiglia Bibas, Tamir Nimrodi. Lo hanno fatto in altri paesi, in altre occasioni. Pagine Ebraiche, nel corso di un incontro con la stampa italiana, ha chiesto loro se in questi mesi di missioni per il mondo hanno sentito maggiore solidarietà o se l’impressione è di essere inascoltati. «Sono stata in Canada, negli Stati Uniti, in Svizzera, in Italia e temevo molto di subire attacchi. Di essere vista come una nemica», spiega Ashley Waxman Bakshi, cugina della diciannovenne Agam Berger, rapita da Nahal Oz. «Soprattutto vedendo cosa si dice online, dove l’antisemitismo imperversa. E invece quando parli a tu per tu con le persone, loro capiscono il tuo stato d’animo. Capiscono l’importanza della nostra battaglia». Lo stupore di tutti è di fronte alle istituzioni internazionali. Ad esempio di fronte alla mozione Onu in cui si è chiesto il cessate il fuoco senza vincolarlo alla liberazione di tutti gli ostaggi. «Ma come è possibile?», prosegue Waxman Bakshi. «Se guardate alle nazionalità dei rapiti, molti hanno doppia cittadinanza», ricorda Gal Gilboa Dalal. «Ci sono tedeschi, americani, argentini. Il loro destino è una questiona internazionale».
C’è dunque solidarietà, ma l’impressione è che la questione degli ostaggi sia scivolata in secondo piano, nonostante sia centrale nel conflitto a Gaza. «Tutti parlano dell’esercito israeliano, ma il mondo sembra cieco e sordo davanti ai nostri problemi», afferma Alon Nimrodi. Il figlio Tamir, 19 anni, è uno dei diversi soldati catturati dalla base militare di Nahal Oz. «Se Hamas dovesse deporre le armi e liberare gli ostaggi questa guerra finirebbe subito, per il bene di tutti, israeliani e palestinesi», sottolinea Waxman Bakshi.
d.r.