7 OTTOBRE – Agam e Itay ricordano il loro dramma al tempio a Roma
Nonostante lo strazio vince la speranza. «E grazie a tutti per il vostro amore»

Lacrime e speranza. Le prime per i racconti strazianti, la seconda perché sia il messaggio di Itay sia quello di Agam si sono conclusi con parole di convinzione: «Riportiamoli a casa!» e ancora «Siamo uniti e prevarremo!». C’era una emozione diffusa domenica mattina al Tempio Spagnolo di Roma, dove decine di romani hanno ascoltato con molta partecipazione le parole prima di Itay Regev, preceduto da suo padre Ilan, e poi quelle della giovane Agam.
Li ha accolti il presidente della Comunità ebraica Victor Fadlun, affermando: «Ilan, tu e i tuoi figli avete il diritto di vivere in pace: diritto che hai reclamato davanti al presidente Sergio Mattarella e a tutte le autorità italiane», ha sottolineato Fadlun ricordando la visita di Ilan Regev mesi fa in Italia. Era fine ottobre quando il padre di Itay e di Maya, allora ancora entrambi nelle mani di Hamas, visitò l’Italia cercando di sensibilizzare il paese sula sorte dei suoi figli, poi liberati a novembre nel quadro di un accordo fra Hamas e Israele.

Ilan: servono nuovi miracoli
«Quando ero qua la volta prima non riuscivo a respirare, non ero una persona completa», ha esordito il padre dei due ragazzi rapiti il 7 ottobre assieme ai loro amici Ori e Omer. «Sono venuto a restituirvi l’abbraccio e l’amore che mi avete dato. Grazie a D-o sono successi tanti altri miracoli perché chi ha fede non ha paura. Da questo tempio dobbiamo pregare perché tutti possano tornare: perché i miei figli oggi sono qui con noi ma i nostri cuori sono ancora a Gaza, con gli altri rapiti».

Itay: Fare di tutto per riportarli a casa
«Il 7 ottobre è stato il giorno più drammatico della mia vita, un giorno in cui sono stato più volte vicino alla morte», ha raccontato il giovane, 18 anni al momento della cattura. Itay ha ricordato che lui, sua sorella Maya e due altri amici erano in fuga con l’auto su una strada piena di cadaveri quando sono stati raggiunti dai colpi a fuoco sparati da un terrorista. «Abbiamo telefonato a mio padre sicuri che non ne saremmo usciti vivi», ricorda menzionando quella telefonata la cui registrazione fece gelare il sangue nelle vene lo scorso ottobre a tutti quelli a cui il padre la fece ascoltare. «Ci hanno rapiti e appena sono arrivato a Gaza ho pensato a come suicidarmi, anche perché non ero con mia sorella. In seguito, ho pensato che se sono sopravvissuto al 7 ottobre e al resto è perché D-o vuole vivi me e mia sorella. Io», ha proseguito, «sono stato prigioniero con Omer per 52 giorni: per me è come fosse mio fratello maggiore. È la persona che mi manca di più e farò di tutto per riportarlo a casa. Le persone che incontro», ha concluso, «mi chiedono se vado dallo psicologo ma io so che io non potrò tornare alla mia vita normale finche tutti gli ostaggi non saranno tornati a casa».

Agam: non ho mai visto tanto amore
La giovane Agam, anche lei sopravvissuta al Nova Festival, ha raccontato la sua storia fra le lacrime. Assieme al fidanzato Itamar e a due amici partono dal nord alle 2.30 arrivando al festival alle 5 del mattino. «Alle 6 erano già suonati i primi allarmi missile: io non ero troppo preoccupata perché sono della zona e sono abituata a queste emergenza ma i miei amici del nord erano molto spaventati. Verso nord non si poteva andare, allora ho proposto di andare al kibbutz Re’im perché sapevo che lì hanno un rifugio antimissile». A Re’im la situazione era abbastanza tranquilla: «Avevamo sentito le prime notizie di stragi ma non ci potevo credere». Nel giro di pochi minuti quel rifugio si rivelerà una trappola. Lei e Itamar, che le promette di proteggerla, sono ammassati assieme ad altre 30 persone. Sentono i terroristi arrivare, sparano, gridano in arabo. «Per sette volte hanno tirato granate nel rifugio e per sette volte qualcuno le ha rilanciate fuori. Altre tre granate ci colpiscono. Io sento solo gli altri recitare la preghiera dello Shemà, ma non sono religiosa, cerco di ricordarmela». Prende fiato. «Non vedo più nulla, vedo tutto nero, credo di essere morta, poi entra un terrorista e mi rendo conto che portano via delle persone. Itamar mi chiede ‘sei viva?’ e capisco di essere ancora viva. Un altro terrorista entra, è sopra di me, urla Allahu akhbar e spara nel mucchio. Sono piena di sangue, non so se è mio. Forse sono morta». Itamar è ferito a un braccio, sanguina. Ore dopo entra un uomo in cerca del figlio che lo aveva avvisato per telefono. «Faccio finta di essere morta, poi mi rendo conto che è israeliano, si chiama Eyal. Solo dopo che siamo stati estratti dal mucchio di cadaveri mi rendo conto di essere stata ferita da una pallottola. Eyal ci porta in ospedale». Agam non era mai voluta uscire da Israele ed è la prima volta che parla in pubblico. «In ospedale vedo mia mamma: ‘Non ho mai visto tanta cattiveria’, le dico. E ora che sono qui con voi vi dico: ’Non ho mai visto tanto amore’». Asciuga le lacrime. «Noi ci stiamo riprendendo a livello fisico e mentale ma nessuna terapia, come ha detto Itay, ci può aiutare. Solo riportare gli ostaggi aiuterà. E per quelli che non ci sono più possiamo solo raccontare le loro storie: erano persone bellissime».

Una nuova testimonianza
Domenica sera Hila Fakliro e Na’ama Gal parleranno del loro 7 ottobre al centro Pitigliani a Roma. L’appuntamento è per le 19.30
Anche Hila e Na’ama erano al Nova Festival e si sono salvate fra mille difficoltà. Le due ragazze sono ospiti dell’organizzazione sionista Brit Am, che ha organizzato il loro viaggio e permanenza a Roma con il supporto della World Zionist Organization.

dan.mos.