7 OTTOBRE – Hila e Na’ama: Israele e diaspora siano uniti
Al Pitigliani, la testimonianza di due sopravvissute al Nova festival

«Mi chiamo Hila, ho 26 anni. Il 7 ottobre avevo il turno al festival Nova dalle 23.30 alle 8.30». È iniziata così la testimonianza di due ragazze israeliane sopravvissute alla mattanza perpetrata al festival di musica nei pressi del kibbutz Re’im. Un evento organizzato in corrispondenza degli ultimi giorni delle festività d’inizio dell’anno ebraico ma conclusosi con la morte di 364 fra staff e partecipanti a seguito dell’attacco scatenato da Hamas sul sud d’Israele. Hila e Na’ama hanno raccontato come sono uscite dal quel pogrom domenica sera al Pitigliani nel corso di un evento organizzato fra l’altro con l’aiuto della World Zionist Organization e dell’associazione intergenerazionale sionista Brit Am. Sul palco a moderare gli interventi delle due giovani c’erano la giornalista italo-americana Anselma Dell’Olio e Silvia Mosseri per Brit Am.
Hila è convinta di aver salvato la vita grazie al manager dell’organizzazione del festival che, arrivato l’allarme missili, l’ha trattenuta in zona rave party per un’ora. Per il resto del tempo Hila ha sempre corso, prima in auto e poi a piedi, poi di nuovo in auto, cercando disperatamente una via d’uscita fra le file di macchine di giovani in fuga dall’orrore. Nella sua marcia notturna Hila ha incontrato «un poliziotto che sanguinava dalla bocca, persone che urlavano, una ragazza in un’ambulanza che gridava di non sentire più le gambe, persone che si nascondevano dietro alle auto mitragliate dai proiettili. Vedo una ragazza ferita alle gambe ma i suoi amici la aiutano, continuo a correre. Mi nascondo in un avvallamento del terreno. Vedo la mia amica Bar. La chiamo, corriamo insieme verso est, verso Ofakim come ci ha detto la polizia». Poi un grande blackout. Hila ha rimosso l’orrore di quanto visto ma ricorda i suoni della strage: le risate dei terroristi e le grida “Allahu akhbar”. «Abbiamo corso per oltre 5 ore, bevendo acqua sporca. Siamo arrivate al kibbutz Patish. Da lì a Beer Sheva e da Beer Sheva a Tel Aviv». La sera Hila arriva a casa. Non è ferita ma è sotto shock. La mia storia è una storia «buona», dice. Lo shock però continua. Perché la sera «mi arrivano video di amici che sono stati rapiti, e video di miei amici che non ci sono più. Ho perso sei amici, altri tre sono fra gli ostaggi a Gaza. Una è la mia amica Noa Argamani e tutti sappiamo cosa fanno alle donne della mia età. Un altro è il suo fidanzato Avinadav. Poi c’è Alexander Lobanaov, il manager che mi ha salvato la vita e la cui moglie ha avuto un bambino due mesi fa».

La testimonianza di Naama

«Alle 6:30 c’era tantissimo traffico non sapevamo dove andare. Sentiamo i colpi di arma da fuoco. Un ragazzo ci dice di scappare e andiamo tutti in direzione diverse. Io sono tornata in mezzo al rave. Qualcuno mi ha spinto dentro un cassonetto della spazzatura dove mi sono nascosta con una trentina persone per sei ore. A mezzogiorno una ragazza muove una gamba: le dico di fare piano ma un terrorista ci sente, apre il cassonetto e spara». Na’ama si prende quattro pallottole AK che si muovono nel suo corpo, oggi segnato dalle cicatrici. «Capisco che sto morendo e con la mano sinistra chiamo mia mamma per dirle addio. Poi mando la mia posizione all’interno del gruppo Whatsapp dell’organizzazione di Nova». Lei rimane nascosta sotto la spazzatura. Ore dopo il suo amico Ron e un altro manager, feriti, la issano fuori adagiandola in terra. «Ron è stato poi rapito ed è ancora a Gaza. Sono sdraiata a terra e vedo due terroristi che cercano di sparare un Rpg ma il soldato che è là li uccide». Intanto un paramedico ferma l’emorragia alla sua gamba sinistra, ma non in quella destra. «Arriva un’ambulanza ma non ha medicine, poi una seconda, poi una terza. Arrivo all’ospedale alle 15,30 ma avevo perso la metà del mio sangue. Ho perso conoscenza e mi hanno operata. Sono rimasta a letto per due mesi. Ho grandi cicatrici che mi fanno male, premono sulle terminazioni nervose. Non mi fanno dormire. Ho perso cinque amici».
Oggi Hila e Na’ama fanno riabilitazione fisica e psichica. Parlare aiuta, dicono, e una volta alla settimana si incontrano con gli altri ex dipendenti di Nova, ora diventata una fondazione per l’auto-aiuto: «Tra di noi non abbiamo bisogno di parlare ma ci facciamo coraggio». Hila non riesce più a studiare «perché quando mi siedo mi vengono gli attacchi di panico e non lavoro neppure». E nonostante sia lei quella traumatizzata aggiunge: «Noi israeliani vogliamo che voi ebrei della diaspora non vi sentiate soli: noi siamo con voi». Poi riprende: «Prima andavo sempre a fare acquisti nel villaggio arabo di Kfar Qassem, ma adesso quando sento parlare arabo mi prende il terrore. Sono andata a parlarne con il dottore, ma non c’era perché era stato richiamato come riservista: al suo posto c’era un medico arabo che è stato gentile. Non vogliono tutti ammazzarci, lo so. Ma io ho paura». Na’ama non la vede diversamente. «Non riesco a lavorare, ho troppi dolori e penso tutto il tempo ai miei amici. Prima del 7 ottobre avevo amici arabi: oggi ho preso un caffè a Roma, ho sentito parlare arabo e mi è venuto un attacco di panico». E se Hila dice di aver paura di tutto, «di guidare, del deserto, dell’arabo», ma vuole restare in Israele, Na’ama spiega di non poter immaginare «di crescere figli in un paese dove ti possono tornare a casa con quattro pallottole in pancia perché sono andati a ballare».
Alla fine dell’incontro Hila e Na’ama hanno risposte alle domande dei rappresentanti dei movimenti ebraici giovanili. «Attenti ai social», hanno messo in guardia. «Lo sapete che i social censurano i contenuti pro-Israele?».