7 OTTOBRE – Schapira: Pace più lontana, Israele e Diaspora più uniti

La giornalista e regista Esther Schapira non ha dubbi: quello del 7 ottobre non è stato un attacco terroristico, è stato l’inizio di una nuova guerra globale in cui tutti gli ebrei sono l’obiettivo. Tutti gli ebrei si sentono attaccati. Che sia nelle università, nelle istituzioni culturali, per strada, durante gli avvenimenti sportivi poco cambia: la disinformazione, le mezze verità e le notizie false sono elementi parte di una stessa guerra. Dal 14 aprile poi – scrive sulla Juedische Allgemeine – anche droni e missili iraniani sono della partita. Ora si può sperare che l’attacco iraniano possa segnare una svolta nella storia del Medio Oriente e che la partecipazione di Giordania, Egitto e persino Arabia Saudita, oltre ovviamente a Stati Uniti e alla Gran Bretagna segni il nascere di una nuova alleanza anti-terrorismo. La guerra iniziata il 7 ottobre 2023 ha portato anche a noi europei immagini di orrore, di persone che hanno perso la propria casa, che piangono per i propri cari, feriti e morti. Ma quanti sono i morti, quanti i feriti, quanti gli sfollati? Schapira sottolinea che più di 250 mila persone sono state evacuate in Israele, e che ogni giorno l’esercito israeliano pubblica i nomi dei soldati uccisi e feriti. Si contano i giorni, e aumenta il timore per gli ostaggi. Hamas ha nuovamente respinto una possibilità di accordo, l’Iran ha attaccato direttamente Israele, e non è affatto chiaro come sia possibile ridimensionare la capacità militare di Hamas in modo da garantire che non ci possa essere un altro 7 ottobre. Più passa il tempo e più una orrenda aritmetica delle vittime mette automaticamente Israele dalla parte del torto, con il mondo indifferente alla differenza fra morti per mano di terroristi e morti in guerra. L’orrore morale, continua Schapira, la condanna, il biasimo sono rivolti verso Israele in maniera univoca: Hamas sta raccogliendo consenso mediatico. Il sostegno al paese vittima dell’aggressione del 7 ottobre è durato pochissimo, e la condanna morale – che evidentemente non si applica a chi utilizza la propria popolazione come arma di guerra – è arrivata a togliere a Israele anche il diritto di difendersi. Chi vuole ancora aggrapparsi all’idea che una soluzione a due Stati sia possibile, chi crede seriamente che Israele possa avere come vicino uno Stato che immediatamente cercherà di costruire un esercito (per avere più successo al prossimo tentativo), o ha chiuso gli occhi, e il cuore, o in in realtà vuole porre fine all’esistenza stessa di Israele. Arrivare alla pace ora è molto più difficile: dopo il 7 ottobre si è riaperto un trauma di tale portata da mettere la sofferenza al centro delle azioni. Prima si pensa alla sofferenza, poi alla morale. E per vincere sull’odio servono una riconciliazione e la possibilità di provare empatia. Senza coesistenza non può esserci sicurezza, almeno per gli israeliani, ma neppure per i palestinesi. Devono innanzitutto esserci governi governi democraticamente legittimati da ambo le parti. Inoltre per poter influenzare la politica israeliana a beneficio dei palestinesi è necessario che mediatori credibili – partner arabi e Stati Uniti – si assumano la responsabilità della sicurezza di Israele e accompagnino attivamente il contenimento di Hamas e la ricostruzione di Gaza. Chiunque vuole che Israele lasci Gaza, deve poi essere in grado di mantenere l’ordine. I vicini arabi di Israele – Giordania, Egitto e Arabia Saudita – l’hanno capito, ma sono ancora troppo pochi. Schapira però ha anche notato come quanto sta succedendo abbia rafforzato un’identità globale ebraica, un “noi” che sta prendendo forza. Un “noi” collettivo di persone che, indipendentemente dall’appartenenza religiosa, politica o sociale, si riconosce. Gli ebrei di tutto il mondo con il tradimento della sinistra e del femminismo e il fallimento della comunità internazionale che sminuisce, nega o ne cancella la sofferenza sono ora più consapevoli di ciò che significa essere parte della minoranza ebraica.