IL PERSONAGGIO – Helen Suzman, la donna ebrea in prima linea contro l’apartheid

In un soleggiato pomeriggio del dicembre 2000 Helen Suzman e la figlia Frances Jowell aspettano in cortile l’inaugurazione del nuovo museo ebraico di Città del Capo. Tutto si ferma con l’arrivo dell’ospite d’onore: Nelson Mandela. “Mentre saliva sul podio, Madiba chiese: dov’è Helen? Helen Suzman è qui?”, racconta la figlia. “Non appena la vide, le disse di venire al suo fianco e le dedicò un caloroso tributo, ricordando il suo ruolo nella lotta all’apartheid. Mise poi in guardia i presenti dal non dimenticare chi, come mia madre, agì da sola nelle ore buie della lotta”. Per 36 anni Suzman fu la voce più tenace nel Parlamento sudafricano per l’abolizione dell’apartheid. Per tredici anni (dal 1961 al 1974) l’unica, rappresentando da sola il Partito progressista. Donna ebrea di lingua inglese in un’assemblea dominata da uomini afrikaner calvinisti, non si fece intimidire dai commenti sessisti e antisemiti dei colleghi. Con ostinazione portò avanti la sua battaglia contro il National Party, il partito al governo dal 1948 al 1994, e contro la sua politica di segregazione razziale. In un sistema brutalmente repressivo e censorio, mentre milioni di concittadini venivano discriminati per il colore della pelle, Suzman usò il suo scranno da deputata per rivelare al mondo la disumanità dell’apartheid. E quando un ministro l’accusò di mettere in cattiva luce il suo paese, replicò: “Non sono le mie domande a mettere in imbarazzo il Sudafrica, ma le vostre risposte”. “Nel solo 1962”, racconta la figlia Frances in una conferenza online, “mia madre pronunciò 66 discorsi in Parlamento, promosse 27 emendamenti e leggi e portò avanti 137 interrogazioni”. In uno dei suoi interventi, Suzman citò il discorso tenuto da Mandela in tribunale nel 1962, prima della condanna all’ergastolo. “Penso che i membri di questa assemblea debbano sentire cosa dicono i leader africani in questo paese”, esordì la rappresentante progressista. Poi lesse l’avvertimento di Madiba alle autorità razziste sudafricane: la loro violenza – i pestaggi della polizia, le incarcerazioni senza processo, le discriminazioni per legge – non poteva che generare altra violenza. “In quel discorso Mandela ribadiva la sua determinazione a seguire la propria coscienza e non le immorali, ingiuste e intollerabili leggi dello stato. Quel discorso sarebbe caduto nell’oblio della censura, se mia madre non l’avesse pronunciato davanti ai colleghi, permettendo così alla stampa di riportarlo e diffonderlo”. Per Suzman era inspiegabile il sostegno dei suoi concittadini al National Party. In una lettera inviata alla figlia negli anni Sessanta scrisse: “Questo posto maledetto peggiora sempre di più. Come gli elettori possano eleggere questi idioti come loro rappresentanti non lo capisco”. La sua lotta però sarà sempre da dentro il sistema. A differenza di Mandela – che Suzman visiterà diverse volte in carcere – e del suo African National Congress, riteneva di dover contrastare l’ingiustizia con gli strumenti della democrazia. Dopo la morte di Suzman, avvenuta nel 2009, il rabbino capo del Sud Africa, Warren Goldstein, dirà: “Helen non aveva una filosofia politica elaborata. Cercava semplicemente di aiutare i deboli e i vulnerabili. Era l’incarnazione vivente del dettato del Deuteronomio: ‘Giustizia, giustizia perseguirai’. Per tutta la vita ha perseguito senza sosta la giustizia e l’uguaglianza per il Sudafrica”. Lo fece anche per onorare la memoria dei genitori, fuggiti dal regime zarista nei primi del Novecento proprio a causa delle violenze e delle discriminazioni subite dagli ebrei. Suzman non nascose mai la sua identità ebraica. Era lontana dalla religione, ma orgogliosamente vicina alle sue radici, e sostenitrice d’Israele. Criticò la dirigenza ebraica sudafricana per la scelta di non esporsi politicamente. “Mia madre lottò fino alla fine del regime, anche se ci furono momenti di sconforto e stanchezza”, sottolinea la figlia. A restituirle fiducia erano altri attivisti, come Albert Luthuli, Premio Nobel per la Pace e leader del movimento non violento contro l’apartheid. “Nei momenti più forti di frustrazione e stanchezza”, le scrisse nel 1963, “la prego di prendere coraggio e forza dal fatto che migliaia di sudafricani, soprattutto tra gli oppressi, ringraziano Dio per averla creata, Helen”. La sua vita di parlamentare si concluse nel 1988, a 71 anni, quando giudicò maturi i tempi per la fine dell’apartheid. Nei primi anni Novanta la segregazione razziale fu abolita e Mandela, dopo 26 anni, fu scarcerato. Il premio Nobel per la pace, dopo gli incontri nella cella di Robben Island, vide più volte Suzman, che pure non mancò di criticare alcune scelte del suo governo. Nel cortile del Museo ebraico le disse: “Helen non solo ti rispetto e ti ammiro, ma ti voglio bene”, ricorda Frances Jowell. “E lei rispose: ‘Anch’io ti voglio bene Nelson”.