CINEMA – Le valigie di una storia lunga una vita

Riparte da Roma il viaggio de Le valigie della storia, l’ultimo lavoro di Marina Piperno. Per lanciare un messaggio la pluripremiata produttrice cinematografica, con la collaborazione di Luigi Monardo Faccini, ha scelto ancora una volta il linguaggio a lei più congeniale: una telecamera accesa e storie potenti da raccontare. La sua personale, che parte dalle memorie di famiglia, e quella con la esse maiuscola. Due piani che si intrecciano nel documentario, che sarà proposto dalla Comunità ebraica romana e dal Pitigliani sede della proiezione per Yom HaShoah (domenica 5 maggio, ore 18.30).
Le valigie della storia scorre rapido e avvincente. Come d’altronde il libro biografico Eppure qualcosa ho visto sotto il sole, pubblicato dall’editore All Around, di cui la pellicola è l’ideale completamento. Libro e documentario raccontano la vita della produttrice ma anche la sua passione profonda per il cinema, ereditata dal padre Simone che fu dilettante di una certa bravura con la cinepresa. Non a caso il viaggio di Marina nei ricordi comincia con il ritrovamento fortuito di alcune bobine da lui girate negli anni Trenta, in un momento di relativa tranquillità per gli ebrei italiani. La catastrofe presto si sarebbe annunciata, ma le immagini che scorrono sono ancora gioiose e spensierate nelle riprese in bianco e nero sottratte all’oblio. Si inizia dal matrimonio di una zia di Marina, Talia Di Segni, andata in sposa al chirurgo urbinate Vittorio Coen. «Elegantissimo, in tight e cilindro, sembrava più felice di Talia. Era il 1931», spiega Piperno. Arriverà presto un altro sposalizio, quello tra papà Simone e mamma Alessandra, celebrato il 2 aprile del 1933 e documentato anch’esso con struggenti immagini. «Due mesi prima Hitler era diventato cancelliere della Germania. E Mussolini in Italia era salito al potere da undici anni», ricorda Piperno. «Ma nessuna ombra sembrava urtare la felicità di coloro che sarebbero diventati i miei genitori». Non fu un’infanzia semplice quella della piccola Marina, nata a Roma nel 1935 e costretta alla clandestinità all’età di otto anni, quando anche nella capitale iniziarono le retate e i rastrellamenti antiebraici. Ottanta anni dopo, percorrendo le strade del Portico d’Ottavia, racconta di trovarsi in un luogo che riaccende «inquietudini profonde» e «rancori mai sopiti» che né lo scorrere del tempo, né i tanti giovani a passeggio nel quartiere, riescono a mitigare.
Il suo primo atto di denuncia fu veicolato proprio attraverso il cinema, con la scelta di investire nel cortometraggio “16 ottobre 1943” di Ansano Giannarelli, basato sull’omonimo libro di Giacomo Debenedetti. Correva l’anno 1961 e molti ancora preferivano dimenticare. Il cortometraggio gli ricordò che non era possibile.

(Foto: Nadia Gentile)