SHIRIM – Lassù

Lassù

L’albero dei limoni
che fu anche mio
a stento regge l’urlo
della tempesta.
Il sole che regala
a sera cieli infuocati,
non può scaldarlo più.
Qui invece gli alberi
trionfano di limoni,
in altri giardini,
quieti e serrati.

Ariel Viterbo, poeta italiano trapiantato in Israele, autore, tra l’altro, delle raccolte Dimenticarsi 1982-2009 (Milano 2010), Tocchi (Milano 2014), Talelei Razon (Milano 2020) vive a Tekoa, tra le colline a un soffio da Gerusalemme.
La sua casa, oasi di libri e di fiori all’ombra dell’Herodion, guarda a Betlemme.
In primavera, le stradine sterrate che conducono al profondo wadi che segna il confine col deserto si riempiono di fiori vermigli, gli anemoni coronari. In estate, una magnifica quercia osserva come attonita, tra le erbe selvatiche, la struggente bellezza di quel paesaggio lunare.
Nella poesia Lassù, tratta dalla silloge Dimenticarsi, si parla di un albero, l’albero di limoni che, scrive il poeta, “fu anche mio”, alludendo a una storia che non ci è dato conoscere.
Il titolo sospinge il lettore in un altrove noto al solo poeta. Ed è in questo immaginato spazio che la pianta appare come sganciata dai legacci del tempo, quasi divina visione, irradiando, più di altre tra i sempreverdi, l’energia georgica primordiale, la potenza del sole fattasi albero dalla fioritura continua, la cui essenza aspra si svela nel prodigo succo lustrale, la linfa amara simile a falde roventi. Ma incendio non c’è che sia agli occhi visibile. Il verso tacito adombra senza dire. Allude il poeta a una resa già avvenuta, forse, un ripiegarsi lasciato alla fantasia nostra.
L’albero che un giorno fioriva senza sosta a stento regge l’urlo della tempesta. Materia ignea e lignea che ritorna alla terra, rimettendo l’oro nascosto, l’oro preso e ritolto, come se il vegetale, spegnendosi, rendesse le benedizioni ricevute, serbando un solo frammento dell’antica forza solare. Braci si specchiano nella volta d’Averno, ma misero è il falò che non s’infiamma. L’albero genuflesso prega un tepore che non giunge, il sole che dà vita ad ogni forma vivente non può più scaldarlo.
Nell’altrove inesplorato, una tribù di medesime piante risplende, il mistero sepolto nel ristoro quieto, nell’hortus conclusus. Saprà la penombra custodire poderosi sprazzi?
Il commiato è dolce: in un luogo altro, a noi ignoto, gli alberi sono in pieno rigoglio.
Qui trionfano, infine, la luce e la pace.

Shirim è a cura di Mariateresa Amabile, poetessa e docente di Diritti Antichi all’Università di Salerno