LETTERATURA – Sarai Shavit, al sicuro tra le parole in un Israele fragile e ferito

Sul comodino della sua casa a Tel Aviv, in questo periodo di grande fragilità e smarrimento, Sarai Shavit ha posato la traduzione in ebraico di Venuto al mondo di Margaret Mazzantini. «Trovo conforto nella voce e nelle parole di Mazzantini. Nella sua capacità di mostrare l’amore, la famiglia, le relazioni oneste e la compassione nel contesto di una guerra. Mi dà speranza. Per questo ho letto il suo libro una seconda volta, nel mezzo di questa guerra. Avevo bisogno di un modello, di un riferimento. Del resto, sono i libri che mi hanno insegnato a vivere», spiega a Pagine Ebraiche. Scrittrice, poetessa, editor, Shavit è tra le più ascoltate voci della cultura contemporanea israeliana.
La guerra in cui è immersa da sette mesi è quella iniziata il 7 ottobre con le stragi di Hamas. Da allora «non ho mai dormito una notte intera. Non mi sento più al sicuro. Ho paura per i miei figli e sento questa angoscia in tutto il corpo. Allo stesso tempo, sto bene e sono viva. Nel bilancio di questo conflitto, sono nella parte dei privilegiati». In questo momento il più grande conforto è la letteratura. «Sono i libri che leggo e scrivo. Lì la narrazione ha una evoluzione comprensibile. Le storie, come diceva Aristotele, hanno un inizio, uno svolgimento e una fine».
Ma a questa linearità, Shavit aggiunge un elemento per lei fondamentale nella costruzione delle storie. «L’empatia. Una chiave per avere un certo effetto sui lettori». Subito chiarisce che questo non significa «che le storie o l’arte possano cambiare una situazione politica. Ma credo possano cambiare le persone, indurle a guardare in modo diverso la realtà che le circonda».
Da scrittrice e docente di scrittura creativa, Shavit si sofferma ad analizzare il potere delle parole. E porta l’esempio del fenomeno MeToo, fonte d’ispirazione per il suo primo libro tradotto in italiano: Lettera d’amore e d’assenza, pubblicato da Neri Pozza nel 2023. «Quando sono iniziate le prime testimonianze, ho pensato: ‘bene, ma non potranno mai cambiare il mondo. Quelle donne parlano di una ferita subita dagli uomini sul proprio corpo, sulla loro anima, ma è una esperienza personale’. Sono state molto ingenua, o forse troppo pessimista perché in 48 ore si è scatenato un uragano di testimonianze in tutto il mondo, aprendo una discussione globale».
La liberazione di queste voci femminili, racconta Shavit, l’ha indirizzata verso la scrittura del suo Lettera d’amore e d’assenza, in cui una giovane aspirante scrittrice, studentessa al primo anno di Letteratura, racconta la nascita e la fine della relazione con uno scrittore affermato, di oltre vent’anni più grande. «Lei lo vede come un mentore, un po’ come una figura paterna. Vuole imparare da lui come parlare alle persone, come avere un impatto, come riuscire a sentire la propria voce interiore, abbastanza forte da superare la gabbia in cui la società a volte confina le donne». È un originale percorso identitario, quasi di emancipazione, in cui Shavit gioca con i diversi registri. «Non è un poema, non è una poesia, non è una novella né un romanzo. Mi sono divertita a creare un ibrido. È una storia d’amore in cui lei capisce che sì lo amava, ma soprattutto amava il suo potere come uomo nel mondo. Voleva imparare ad essere lei l’uomo nella stanza, mantenendo la propria sensibilità di donna».
In una delle presentazioni in Italia di Lettera d’amore e d’assenza – vincitore del Premio speciale dell’ultima edizione del Premio Letterario Adei Wizo «Adelina Della Pergola» – una lettrice ha fatto notare a Shavit un particolare. «Ha definito il libro una storia d’amore universale, ma ha poi aggiunto di essere stata colpita dalla scena in cui lo scrittore più anziano racconta alla protagonista i suoi libri e ne menziona i titoli. ‘Sono tutti nomi di guerre israeliane, di eventi militari’, mi ha fatto notare. E così mi sono accorta di quanto il tono militare del mio paese, purtroppo, sia nel mio Dna».
Ora il tono militare è inevitabilmente onnipresente nelle vite degli israeliani. La guerra assorbe buona parte dei dialoghi e delle parole. Anche tra gli studenti dei laboratori di scrittura curati da Shavit. «In questo momento si percepisce la paura nei loro scritti. La paura della morte. La paura che tutti noi qui proviamo perché non sappiamo quale sarà il nostro prossimo passo nel mondo».
La scrittrice e direttrice della storica rivista culturale Moznaim – fondata tra gli altri dal padre della poesia israeliana, Haim Nachman Bialik – ammette «di aver razionalizzato solo ora, leggendo i testi dei miei giovani studenti, di aver sempre vissuto in una zona di guerra. Se abiti a Tel Aviv ti illudi di far parte dell’Occidente, ma siamo tutti seduti su questo gigantesco vulcano che è il Medio Oriente. Un vulcano che non sai mai quando erutterà». Leggere e scrivere, ribadisce Shavit, aiutano a mettere a fuoco questa situazione, ma hanno anche un ruolo terapeutico. «Lo vedo all’università.
Dopo le lezioni di scrittura, dopo due ore di sessione, tutti noi, insegnante e studenti, ci sentiamo molto meglio, perché scarichiamo le tensioni e ci concentriamo meglio sui nostri pensieri interiori». Restano però le domande difficili. «Il 7 ottobre e la guerra hanno portato con sé un carico enorme di dolore tra gli israeliani e i palestinesi. Si soffre nel mandare i propri figli in guerra, nel vedere le migliaia di vittime a Gaza, nel pensare agli ostaggi ancora prigionieri di Hamas senza che
il nostro governo sia riuscito a portarli in salvo. E molte persone attorno a me si interrogano sul prezzo da pagare per vivere qui. Se ne valga la pena».
Difficile però immaginarsi altrove. «Questa è comunque casa mia. Vedremo cosa accadrà il prossimo anno: andrò a insegnare ebraico all’Università di Torino e sarà un’esperienza interessante. Sto imparando piano piano l’italiano». Per allora si spera la guerra sia finita. Ma nell’ateneo torinese, segnato quest’anno da un eclatante caso di boicottaggio contro Israele, il clima potrebbe essere difficile. «Chiarirò, come faccio sempre quando parlo in Europa, che non è Israele a parlare, ma Sarai. Non lavoro nella propaganda, ma nell’arte e credo nelle persone. Ho intenzione di fare il mio lavoro e creare occasioni di dialogo, anche con chi non la pensa come me».
Fortemente critica del governo del premier Benjamin Netanyahu, Shavit sostiene l’importanza di contestarne le azioni pubblicamente. Dall’altro lato sottolinea come il boicottaggio non sia una strategia. «Siamo nella sfera dell’antisemitismo, che va oltre Israele e la guerra».
Dopo molte parole dolorose e malinconiche, la scrittrice chiude raccontando un progetto «che mi rende ottimista. Si tratta di una raccolta di racconti e di storie ebraico-palestinesi, di narrativa, a cui partecipano scrittori di tutto il mondo. Il significato è fare qualcosa di artistico insieme. Abbiamo iniziato, ovviamente, prima del 7 ottobre. L’8 ottobre ho pensato ‘questo progetto è morto’. Non potremo mai più continuare. E invece siamo ancora in corsa». In totale sono 20 gli autori a partecipare al progetto: dieci israeliani e dieci palestinesi, tra cui alcuni residenti a Gaza, Ramallah e Gerusalemme Est. «Tutti desiderano continuare per mostrare al mondo che c’è un modo per connettersi e costruire fiducia reciproca, se non tra le nazioni, almeno tra le persone. Il libro sarà tradotto in inglese dall’ebraico e dall’arabo e sarà pubblicato in Europa, speriamo l’anno prossimo. Speriamo finita questa guerra».

Daniel Reichel

(Foto Hadas Farush)