SOCIETÀ – Delle guerre culturali o della sete del compromesso
Con le dimissioni della rettrice di Harvard in seguito alla sua disastrosa deposizione sull’antisemitismo nei campus universitari e alle accuse di plagio, anche sulle pagine italiane si è tornato a parlare di guerre culturali. Si tratta di un fenomeno particolarmente incompreso che vale la pena approfondire perché viene, seppur a scoppio ritardato, spesso esportato e replicato all’estero, Italia inclusa. Le guerre culturali sono conflitti tra valori o ideologie contrastanti, argomenti che accendono dibattiti talvolta feroci nei media tradizionali e sui social network. Una caratteristica fondamentale di questi dibattiti è che si evolvono in un sistema binario; polarizzano lo spettro di opinioni in una realtà in bianco e nero, rimuovendone ogni complessità, anche se la maggior parte delle persone probabilmente identificherebbe la propria opinione in una posizione più «moderata».
Esempi di guerre culturali sono l’aborto, il politicamente corretto, la diversità e l’inclusione in aziende e accademia, la libertà di parola e la cancel culture (o accountability culture a seconda di chi ne parla), i diritti delle persone LGBT, il ruolo dell’istruzione pubblica contrapposto ai diritti dei genitori. Anche i politici nostrani hanno più volte importato slogan e neologismi delle guerre culturali americane, tra «ideologia gender», guerra al Natale, il «Deep State», e così via. Non si tratta di un fenomeno nuovo, ma il clima politico attuale, grazie a populismi e algoritmi, facilita le espressioni più estreme di questi dibattiti. Il bipartitismo del sistema politico americano gioca forse un ruolo in questa realtà spaccata: il numero di compromessi che un elettore fa nell’appoggiare un partito rispetto all’altro è più alto che in un sistema basato sul multipartitismo come l’Italia. Negli Usa si sceglie il partito che meglio rappresenta le proprie idee, anche se non ci si sente sempre rappresentati dalle singole linee politiche e decisioni prese dallo stesso. Il bipartitismo, però, esiste da tanti anni, e non basta a spiegare il fenomeno.
Il social X (già Twitter) di Elon Musk spiega bene la realtà in cui ci troviamo ora, perché è una piattaforma in cui la polarizzazione delle idee prospera. Da una parte l’oscurantismo conservatore che rimuove i dizionari e le enciclopedie dalle scuole e proibisce lo studio della storia della schiavitù negli Usa, dall’altra l’estremismo woke in cui ogni forma d’arte e di espressione fuori dal canone progressista diventa «problematic». I due poli si scontrano frontalmente e calpestano gli utenti che provano ad esprimere opinioni fuori dal sistema binario. Questo fenomeno avviene per due motivi: innanzitutto, gli utenti con idee tra i due poli vengono spesso accusati di rappresentare uno dei due schieramenti ma di celarlo con una posizione falsamente centrista (vediamo spesso queste accuse nel dibattito sul conflitto israelo-palestinese); poi, perché il sensazionalismo dei social media e gli algoritmi su cui si basano danno maggiore risalto alle opinioni che suscitano reazioni forti. Gli esperti parlano di «radicalizzazione algoritmica», che è pericolosa anche perché il pubblico non conosce davvero il funzionamento degli algoritmi di piattaforme come X, YouTube e TikTok.
Il compromesso, idea su cui si dovrebbe basare la politica in un Paese democratico, è démodé. Il populismo, infatti, si appoggia molto alle guerre culturali, perché sono un’arma potente per mobilitare la popolazione. Un esempio: negli Usa, il dibattito sull’aborto ha da tempo falsamente spaccato la società in cittadini «pro-choice» e «pro-life». Da una parte, una fazione politica sta vietando l’aborto in maniera assoluta, incluse le eccezioni come il pericolo di vita per la donna incinta, la violenza sessuale e l’incesto; dall’altra, una fazione non vuole pronunciarsi a favore di alcuna restrizione. Eppure, il 51% degli americani pensa che l’aborto debba essere legale in almeno alcune circostanze: c’è sete di compromesso che la classe politica non è in grado di soddisfare.
In questo periodo le guerre culturali hanno coinvolto anche gli ebrei e l’antisemitismo, in particolare con lo scandalo dei campus universitari americani. Troppo spesso, ben prima del pogrom del 7 ottobre, abbiamo visto correnti politiche strumentalizzare l’antisemitismo in maniera faziosa.
Alcuni politici come la deputata repubblicana Elise Stefanik (diventata nota oltreoceano per aver posto le domande sull’antisemitismo alle rettrici delle università) hanno capitalizzato sulla questione dell’accademia per additare il partito rivale. Finché ciascun partito continuerà a preoccuparsi dell’antisemitismo solo quando arriva dal partito opposto, non possiamo aspettarci grandi progressi nella lotta contro l’odio antiebraico; che l’antisemitismo arrivi dai campus delle Ivy League o da Mar-a-Lago, dove Donald Trump banchetta con noti antisemiti come Nick Fuentes e Kanye West, a una persona intellettualmente onesta non dovrebbe fare molta differenza. È odio antiebraico in entrambi i contesti.
Le guerre culturali pongono una trappola a cui dobbiamo fare attenzione, perché danno voce e spazio mediatico alle frange più radicali dello spettro politico e scavalcano il resto della popolazione, che invece preferirebbe posizioni più sfaccettate. Quando la società e i media si mobilitano su un dibattito in particolare, sarebbe responsabile fare un passo indietro e porsi delle domande: stiamo dando risalto a più di due opinioni contrapposte, o stiamo lasciando che due estremi monopolizzino il dibattito, appiattendone i potenziali sbocchi?
Simone Somekh
(Nell’immagine di Noa Ratinsky: Una manifestazione contro la riforma della giustizia avanzata dal governo Netanyahu. Kiryat Ono, 16 marzo 2023)