ISRAELE – Il mondo haredi attraverso gli occhi della Knesset
Il mondo ebraico haredi è il meno conosciuto, eppure è il più riconoscibile. Gli uomini vestiti di nero, in camicia bianca, cappello in testa, due boccoli (peot) davanti alle orecchie. Qualche serie televisiva o documentario ne ha raccontato alcuni aspetti, ma su di loro regna molta confusione. Anche in Israele, dove rappresentano un quinto della popolazione e dove le tensioni con il resto della società non mancano. Oltre il 40% degli 1,28 milioni di haredi israeliani vive in due città: Gerusalemme e Bnei Brak, alla periferia di Tel Aviv. Percepita come un monolite, questa minoranza è divisa in diverse correnti, gruppi e sottogruppi.
«Per semplificare, i principali movimenti sono tre e sono quelli rappresentati alla Knesset, il Parlamento israeliano: i chassidim (chassid in ebraico significa “pio”) del partito Agudat Israel. Poi c’è Deghel HaTorah, il partito dei Litaim, corrente del movimento haredi ashkenazita. Terzo, il movimento sefardita rappresentato dal partito fondato dal rabbino Ovadia Yosef, lo Shas», spiega a Pagine Ebraiche Israel Cohen, giornalista della radio haredi Kol Brama. «I haredim sono uniti dal porre al centro della loro vita lo studio della Torah. Questa è il loro programma di vita, la fonte della loro protezione», sottolinea Cohen. Vivono in parte isolati dal resto della società, anche se qualcosa è cambiato con il 7 ottobre. «C’è stata una grande mobilitazione e solidarietà nei confronti degli altri israeliani, sia a sostegno delle vittime degli attacchi e degli ostaggi, sia per i soldati. C’è chi è andato ad aiutare negli ospedali, chi a preparare cibi o a distribuire vestiti per gli sfollati». Questo avvicinamento, spiega Cohen, potrebbe essere un punto di svolta positivo. «Il moto di solidarietà ha coinvolto tutti. Anche la fede è diventata un tema diffuso. In molti in questo periodo hanno detto di essersi riavvicinati. Basta guardare la preghiera collettiva dello Shema Israel dedicata a fine marzo agli ostaggi. A Gerusalemme c’erano uomini e donne del kibbutz che mai prima si sarebbero avvicinate a un momento religioso».
Quest’atmosfera, sottolinea Cohen, potrebbe aprire a una nuova fase di comprensione e dialogo tra mondo haredi e il resto della società. «Potrebbe però anche portare a una frattura ancora più profonda. I laici, ma anche i nazional-religiosi, vogliono ora dai haredim una maggiore partecipazione nell’esercito (dal quale è esentato chi studia Torah). Se ne discute, ma la comunità haredi non è ancora pronta. La pressione potrebbe portare a una chiusura del dialogo e a uno scontro aperto». Per Cohen «siamo a un bivio: potrebbe esserci una rivoluzione nei rapporti, o una totale chiusura».
Le minoranze nell’esercito: i numeri
Tsahal, l’esercito israeliano, è definito “l’esercito del popolo”. Al suo interno sono rappresentate le diverse anime del paese: destra e sinistra, laici e religiosi, ebrei e arabi, seppur questi ultimi con una piccola minoranza. Per gli ebrei, salvo alcune eccezioni tra cui l’esenzione per i haredim, c’è la coscrizione obbligatoria. Anche per la minoranza drusa e per la piccola comunità circassa (i primi sono 150mila in Israele, i secondi circa 4500) vale la leva obbligatoria. I cittadini arabi musulmani invece non hanno obblighi, ma possono scegliere se arruolarsi. A fare questa scelta sono soprattutto i membri della comunità beduina (circa 210mila persone in Israele). Attualmente sono circa 1500 a servire nell’esercito e si è registrata nel corso del tempo una crescente partecipazione. Nel 2018 ad esempio 436 beduini si sono presentati volontari. Nel 2020 il numero è salito a 606. «Siamo tutti uniti nell’obiettivo di proteggere il nostro Paese dal terrorismo», ha dichiarato il maggiore Ahmed Khojirat, un beduino del nord di Israele intervistato dal Telegraph dopo il 7 ottobre. Nella sua unità «il comandante è ebreo, il vice comandante è beduino». Ai suoi comandi servono «soldati cristiani, circassi e drusi». Khojirat è musulmano. «Vorrei che la società israeliana fosse più simile alla mia unità, in cui tutti lavorano insieme. C’è ancora molta strada da fare in termini di integrazione delle minoranze nella società israeliana, ma l’esercito rappresenta un avamposto». All’emittente Kan il colonnello (druso) Shadi Othman ha raccontato come sia stata la pandemia a cambiare la percezione di Tsahal in molte comunità arabe. «Una volta che il comando del fronte interno si è recato nei villaggi arabi per dare aiuto e assistenza medica molti abitanti hanno iniziato a vedere l’esercito non più in modo negativo, ma come un servizio. Il fatto che i soldati curassero gli anziani li ha anche resi aperti all’idea che i loro figli si arruolassero nell’esercito». Israele è anche uno dei pochi paesi al mondo che prevede il servizio obbligatorio per le donne. Attualmente, le donne rappresentano il 33% dei soldati che si arruolano in Tsahal. Ricoprono diversi ruoli nelle forze di terra, della marina e dell’aviazione. La leva obbligatoria inizia a 18 anni e dura 24 mesi per le donne e 32 per gli uomini. I soldati in servizio attivo sono circa 170mila. Poi ci sono i riservisti, attualmente 460mila.
Nell’immagine, il giornalista Israel Cohen assieme a rav Chaim Kanievsky (1928-2022)