ISRAELE – La storia di Yossi, il “timorato” che ha scelto la divisa

Per Yossi Levi rimanere a studiare tutto il giorno in yeshivah, la scuola religiosa, rappresentava un peso. «Per me era troppo», ammette a Pagine Ebraiche. Cresciuto in una famiglia di haredim – dall’ebraico “timorati di Dio”, impropriamente definiti in italiano ultraortodossi – dell’insediamento di Beitar Illit, Yossi avrebbe dovuto dedicare interamente la sua vita allo studio della Torah al pari dei suoi fratelli. «In teoria non c’erano altre opzioni, anche se cercavo delle alternative facendo piccoli lavori qua e là». Finché un reclutatore dell’esercito lo ha intercettato. «Pensavo fosse una battuta. Io? Arruolarmi?». Nessuno scherzo e, dopo qualche tentennamento, «ho detto va bene, ma vengo con alcuni amici. ‘Porta chi vuoi, mi ha risposto’. E così nel 2009 è iniziata la mia carriera militare». Oggi il maggiore Levi, oltre ad essere un riservista, guida l’ong Nahal Haredi per aprire le porte dell’esercito alla minoranza haredi: «Siamo il 14% della popolazione del paese (1,2 milioni di persone), ma abbiamo livelli bassissimi di arruolamento».
Negli ultimi anni solo il 10% degli uomini «timorati» in età di leva ha scelto questa strada. In un paese in cui la coscrizione è obbligatoria per i due sessi e l’80% degli uomini ebrei fa ogni anno il servizio militare, l’esenzione per i religiosi è oggetto di acceso dibattito. La deroga concessa agli studenti delle yeshivot risale alla nascita dello stato d’Israele, ma allora riguardava un numero esiguo di persone. Oggi invece la comunità haredi, con il tasso di natalità più alto del paese, è il gruppo in maggiore crescita. Secondo le stime, nel 2050 un israeliano su quattro apparterrà a questa comunità. «Per la sicurezza del nostro paese, per la sicurezza di tutti, non è pensabile non aumentare il numero di arruolati tra i haredi», spiega Levi. Per farlo, aggiunge, servirà instaurare un dialogo franco con questo mondo. «So cosa vuol dire scontrarsi con la famiglia. I miei genitori, i miei fratelli, erano contrari quando annunciai la mia scelta di entrare in Tsahal». Poi però anche i parenti più risoluti «hanno alzato le braccia. E alla fine oggi sono contenti. Hanno visto che mantengo la mia religiosità e per loro va bene così».
La carriera militare di Levi è iniziata nel Battaglione Netzah Yehuda, fondato dieci anni prima dai rabbini Yitzhak Bar Haim e David Fox per consentire agli uomini haredi di far parte di unità di combattimento in un’atmosfera strettamente osservante della legge religiosa ebraica. «Ci vengono serviti pasti glatt kosher (secondo stringenti regole alimentari religiose), abbiamo un’ora a disposizione per studiare Torah, il tempo per pregare tre volte al giorno, c’è una netta divisione di genere e rispettiamo lo shabbat».
Oggi l’esercito israeliano comprende 20mila riservisti haredi, di cui circa 7mila sono entrati in servizio durante la guerra contro Hamas. Circa 3mila fanno parte di unità combattenti. Si tratta di uomini. Per le donne al momento è stato attivato un progetto speciale per lavorare per l’esercito come programmatrici di computer, ma senza indossare l’uniforme. «Dalle stragi del 7 ottobre si registra un generale aumento di interesse e di sostegno per Tsahal: il mio obiettivo è quadruplicare il numero di haredi coscritti ogni anno».
Oltre a una questione di sicurezza, per Levi c’è un fattore economico. Il 91% dei religiosi con alle spalle il servizio militare ha un’occupazione. Un dato significativo se si pensa che in questo gruppo la disoccupazione è al 55,8%. «Il problema è la fiducia e la responsabilità. La comunità haredi sa cosa significa condividere la responsabilità collettiva. A chi è in grado di andare avanti negli studi deve essere permesso di farlo, ma chi invece non lo è, come è accaduto al sottoscritto, deve avere delle alternative. Deve poter dare il suo contributo nell’esercito e nell’economia». Alcune delle massime autorità rabbiniche hanno però contestato questa idea. Il rabbino capo sefardita d’Israele, Yitzhak Yosef, ad esempio, ha dichiarato: «Se ci obbligano ad andare nell’esercito, ci trasferiremo tutti all’estero». Rivolgendosi ai laici, rav Yosef ha aggiunto: «Queste persone non capiscono che, senza le scuole religiose, l’esercito non avrebbe successo». «Rispetto rav Yosef e non voglio commentare la sua posizione», afferma Levi. «Per me serve un piano governativo per incentivare i haredi ad arruolarsi. Finora non c’è stato. Bisogna costruire la fiducia dal basso, attivare programmi prescolastici, incontrare i giovani, aprire un dialogo con le autorità rabbiniche. Noi come Nahal Haredi già lo facciamo, ma deve essere messo a sistema».

Daniel Reichel