USA – «La Palestina è il nuovo Vietnam e Israele il cattivo di turno»
«È la mia ultima settimana alla Harvard Kennedy School. Come israeliano, non è stato l’anno che avevo immaginato. Dallo scoppio della guerra a Gaza, abbiamo assistito non solo alle legittime critiche nei confronti delle politiche di governo del primo ministro Benjamin Netanyahu ma anche a un tentativo sistematico di delegittimare l’identità israeliana e il diritto a esistere dello Stato di Israele». Sono parole di Barak Sella, l’esperto di rapporti israelo-americani ed ebraismo mondiale ex direttore del Reut Institute, iscritto a un master in Pubblica Amministrazione. «Le proteste non riguardano più Israele ma l’America. Israele è diventato il capro espiatorio perfetto per quelle teorie postcoloniali e antimperialiste che si sono diffuse negli ultimi decenni nelle università d’élite. In pratica l’idea è che se si potesse rimuovere il ‘problema israeliano’ si arriverebbe sconfiggere l’intero sistema oppressivo». La guerra è ancora in corso, ragiona Sella nell’articolo pubblicato dal Forward, ma ha superato il suo apice e Hamas continua a rifiutare un accordo dopo l’altro mentre le proteste, e gli accampamenti, segnano una svolta rispetto a quello che sta succedendo. Ogni generazione ha avuto la sua protesta, dal Vietnam a Occupy Wall Street. Ora la Gen Z ha la Palestina. Barak Sella sostiene che le proteste, e le esplicite dichiarazioni antisemite, sono il risultato di un profondo pessimismo sociale e politico, molto diffuso tra i giovani americani. Un sondaggio condotto dal Wall Street Journal a febbraio mostra che tre quarti dei giovani americani pensano che il Paese stia andando nella direzione sbagliata, un terzo dei giovani elettori ha un’opinione negativa sia di Donald Trump sia del presidente Joe Biden, e il 63% non si sente rappresentato da nessuno. I loro obiettivi politici stanno fallendo e si ritrovano ad affrontare le elezioni presidenziali del 2024 con due candidati anziani che rappresentano il passato. La gioventù americana sarebbe piena di un’energia “politica” che non sa come e dove incanalare e quando le società entrano in crisi ci sono due possibilità: cercare di capire cosa fare oppure chi incolpare. Apparentemente gli studenti universitari hanno scelto la seconda strada. Negli accampamenti il colpevole è chiaro: perché non esiste un’assistenza sanitaria universale? Per i finanziamenti militari per Israele. Brutalità della polizia nei confronti delle persone di colore? Tutta la colpa dell’addestramento ricevuto della polizia israeliana. Candidati progressisti perdenti alle elezioni di medio termine? È per via della lobby israeliana. I giovani americani indirizzano la disperazione contro Israele, trasformando il sionismo in un termine peggiorativo. Alla Columbia University si sono visti manifestanti chiedere il ritorno degli ebrei in Polonia, sostenere Hamas e vietare “ai sionisti” di entrare. Quello che il governo israeliano fa o non fa ora non ha più molta importanza. Lo stato di Israele è diventato il cattivo per antonomasia. Gli americani dovrebbero preoccuparsi: nel corso della storia, ogni società che ha permesso all’antisemitismo di manifestarsi alla fine è crollata. Le proteste filo-palestinesi sono guidate da giovani con un profondo desiderio di cambiamento, e alimentate da un enorme pessimismo politico. Se i manifestanti fossero più coerenti e imparziali nella loro richiesta di giustizia e chiedessero il rilascio degli ostaggi, lo smantellamento di Hamas e una soluzione a due Stati, non solo otterrebbero più sostegno da parte dell’opinione pubblica, ma probabilmente molti israeliani che vivono negli Stati Uniti si unirebbero a loro.