SHIRIM – «Marzo» (seconda parte)

..,Se lo scuoti e lo palesi,/marzo, giovine pazzia, /la sua trista nostalgia/ sogna il sonno di sei mesi./
Ei ti teme, dolce frate /marzo, terrore giocoso, /ma tu passi vittorioso, /sbatti gli usci e le
impannate/ con le tue folli ventate, /e la densa polve sveli /nel tuo raggio popolato, /e sul legno
affumicato /i vetusti ragnateli. /Poichè il termine al riposo /canti, marzo adolescente, /t’odia questa
buona gente, /marzo luminoso. /Ma se t’odiano addormiti /nelle coltri riscaldate, /ed i passeri
impauriti /nelle siepi denudate, /t’ama il falco su nell’aria /che più agile si libra /nella tua ventata
varia,/e la sente in ogni fibra /lieta della tua procella, /chè per lei si fa più bella, /che per lei si fa
più pura /ai suoi occhi la natura. /Marzo luminoso /mese adolescente,/ marzo irriverente, /marzo
ventoso.
(seconda ed ultima parte della poesia Marzo di Carlo Michelstaedter)

Se lo scuoti e lo palesi,/marzo, giovine pazzia, /la sua trista nostalgia/ sogna il sonno di sei mesi.
Come un giovane acerbo che infanghi a pedate terrose il patio ameno dei giorni d’infanzia, Marzo
irrompe con potente energia che ha in nuce una maturità non lontana.
Si tratta di un passaggio, un rigirarsi tra le dita misteriche dell’equinozio. Se non ci si presta
attenzione, il mese passerà svelto tra le ombre, gli scrosci, i mattini ancora freddi, fiori solo
indovinati. A chi avesse l’animo, tuttavia, Marzo regala lampi inattesi. Non primule, soltanto, o
timidi declivi erbosi, ma un sentire di sogno e di coscienza a un tempo, come un dormire da svegli o
un risvegliarsi in sogno, contando, dal solstizio, le pedine andate di mese in mese, le sere colme
d’acqua, i mattini lunari. Il poeta coglie, nel passaggio, quei rari momenti di presenza sensibile nel
mondo, quasi che questo nostro corpo appartenesse altrui e l’abitassimo lievemente, in superficie,
come al di fuori di esso.
Ei ti teme, dolce frate /marzo, terrore giocoso, /ma tu passi vittorioso, /sbatti gli usci e le
impannate/ con le tue folli ventate, /e la densa polve sveli /nel tuo raggio popolato, /e sul legno
affumicato /i vetusti ragnateli. /Poichè il termine al riposo /canti, marzo adolescente, /t’odia questa
buona gente, /marzo luminoso.
Di nuovo prende in giro, bonario, il poeta, i tementi del Marzo, che hanno in uggia le ventate
improvvise, i crudeli spifferi. Tra questi, un fraticello che vediamo affannarsi a sigillare gli scuri,
spaventato, provare a proteggersi dall’irruenza del mese impazzito.
Ma dai deschi la polvere invernale scivola via: è la cenere spessa delle braci che hanno scaldato le
membra di uomini e bestie e intriso di fumo quelle buone panche i cui angoli scintillano di segrete
ragnatale.
Il paesaggio umano descritto da Michelstaedter è pigro, riottoso al passaggio. Quasi come se
l’inverno avesse gettato sui corpi una malia atta a renderli grevi, facili al sonno, le menti placide
svaporate in nebbiose pianure. Così i più detestano il Marzo di luce, pei suoi giochi e gli scherzi.
Ma se t’odiano addormiti /nelle coltri riscaldate, /ed i passeri impauriti /nelle siepi denudate,
/t’ama il falco su nell’aria /che più agile si libra /nella tua ventata varia,/e la sente in ogni fibra
/lieta della tua procella, /chè per lei si fa più bella, /che per lei si fa più pura /ai suoi occhi la
natura. /Marzo luminoso /mese adolescente,/ marzo irriverente, /marzo ventoso.
Allo stesso modo vi è chi tardi a sortire dai tiepidi letti, ora che l’alba arriva alacre presagendo più
lunghe giornate; giornate nuove che romperanno, anch’esse, l’indolenza del trascinarsi.
Ma il rapace sentirà vibrarsi col Marzo e amerà la tempesta che lo conduce in alto, lo scroscio in
agguato nei meriggi opachi che disvela le stelle.
Così Marzo compie la sua opera rivoluzionaria. Così il poeta consegna un paesaggio naturale nuovo
e antico, rinfrancato, ripulito dai fumi invernali e viete nuvolaglie. Le stesse che adombrano i giorni
di certe nostre primavere, scolorando il verde neonato dei prati; e l’allodola indora i mattini e
l’acquazzone avvisa che verrà.

Shirim è a cura di Mariateresa Amabile, poetessa e docente di Diritti Antichi all’Università di Salerno