SHIRIM – «Aprile» (Carlo Michelstaedter)

Il brivido invernale e il dubbio cielo/e i nembi oscuri, che al novello amore/han fatto schermo della terra antica, /dispersi a un tratto, al sol ride la terra/che d’erbe e fiori ancor s’è ricoperta,/se pur il ciel di nubi ancora svarii,/onde occhieggian le stelle nelle notti,/e nere fra il lor vario scintillare/ traggan le lunghe dita pel sereno,/che al piano oscuro ed ai profili neri/degli alberi dei monti si congiungono./Ma nel cielo e pel piano, ma nell’aria,/ma nello sguardo della tua compagna/e nel pallido viso,/ma nel tuo corpo, ma per la tua bocca/canta ciò che non sai: la primavera […].Che pure in me natura si nasconde/ insidiosa, e ignaro me sospinge[….]Gia trapassa la notte e nuove fiamme/leverà il sole, ch’ei rispenga tosto./Passano i giorni e già sarà qui il verno,/e il sol sorgendo pallido e incurante/farà fiorire il fango per le strade[…..]Così nel giorno grigio si continua/ogni cosa che nasce moritura,/che in vari aspetti pur la vita tiene,/ed il tempo travolge — e mentre vive/vivendo muor la dïuturna morte[…] Ed ancor io così perennemente/e vivo e mi trasmuto e mi dissolvo,/e mentre assisto al mio dissolvimento,/ ad ogni istante soffro la mia morte[…]

 

Del lungo testo Aprile, di Carlo Michelstaedter (Gorizia, 3 giugno 1887 – 17 ottobre 1910), si sono riportate, per brevità, solo alcune parti.

Notiamo come lo scorrere del verso sia mutato insieme col mese: non più, come in Marzo, un ritornello antico, una giaculatoria dei tempi andati da recitare in cortile o sul sagrato, quasi che la ripetizione dei nomi, dei qualificativi avesse a richiamare l’essenza, ognora cangiante, del tempo, e trattenerla. La musica in Aprile è come attonita, l’introduzione misurata, pure gravida di ciò che sarà.

Il paesaggio appare incerto. Molte volte si è pianto, dell’inverno, i rigori che costringono a forzate solitudini, il confinarsi in casa per sfuggire i malanni nei pomeriggi desolati.

Fuori, pregne nuvole, sagome ignare del nostro patire; a tratti un grave stormir di correnti, malinconiche fantasticherie. La natura ha intonato il suo canto di morte: ha da attendere, come ogni speranza, il palpito solatio che le ridarà vita.

Ma le nuvole, in Aprile, dileguano. Rivive la zolla trafitta, i declivi slabbrati s’umettano d’erba.

In alto, nelle notti, bagliori diseguali si fondono ai bui profili dei monti. Così tutte le cose che esistono permangono pianamente notturne e oscure.

Ma c’è un momento, in Aprile, in cui il chiarore dell’alba si fa nitido: l’io segreto riapprende, allora, il mistero; lo terrà seco, nascostamente, nei giorni a venire, quando si andrà per le vie lamentando nel petto un’ansia nuova, un vago sapere che precede, che supera.

È in ogni essere il mistero della primavera, custodito, scordato, riappreso segretamente ogni anno.

Canterà, allora, Aprile, canzoni nuove e antiche, bruciando di fame novella l’umana esistenza.

Come placarla e gioire, dispera il poeta, se l’ancestrale desio incontra la coscienza di sé, dell’antropica, terribile finitudine?

Un sapere che smagrisce l’anelito, irrancida all’occhio i neonati germogli.

Come a ogni luce fa seguito il buio, ogni radiosa primavera è presaga d’inverno. Così moritura l’aurora bambina, quasi non nata, ché nell’accendersi il giorno è già chiara la notte, ché si prostrano i ginocchi al sentire nel corpo la diuturna morte.

Shirim è a cura di Mariateresa Amabile, poetessa e docente di Diritti Antichi all’Università di Salerno