MEDIO ORIENTE – Il conflitto visto con gli occhi di Wittgenstein

Il conflitto in Medio Oriente non è caratterizzato solo dalla sua estrema violenza, è alimentato da uno scontro continuo su concetti e idee che sono vere e proprie visioni del mondo. Maximilian Probst, sul settimanale tedesco Die Zeit, ha argomentato negli scorsi giorni come per comprendere quello che sta succedendo, la nostra migliore risorsa sia rivolgersi a un filosofo, a un pensatore che mai si è espresso sull’argomento. Viennese di origini ebraiche, battezzato cattolico e per un periodo compagno di scuola di Adolf Hitler a Linz, Ludwig Wittgenstein può essere un riferimento cui guardare con attenzione. A partire dalla sua analisi della nota illusione ottica proposta a fine Ottocento da Josef Jastrow, in cui un’unica immagine può essere percepita come la testa di un coniglio o di un’anatra, che guardano in direzioni opposte. È possibile vedere solo uno dei due animali, oppure l’altro, ma non è possibile percepirli contemporaneamente. Ed è uno dei problemi fondamentali del conflitto mediorientale. Dalla terminologia, parole che rimbalzano nelle manifestazioni, da un campus all’altro e il cui significato viene continuamente rovesciato – apartheid, genocidio – alla visione di Israele come un progetto in cui il sionismo è stato solo un modo per nascondere l’intento puramente coloniale, tutto per il filosofo viennese può essere letto come una capacità di passare da una visione all’altra, da un animale all’altro, con assoluta scioltezza, qualcosa che è parte di una lotta per l’ammaliamento della nostra capacità di comprensione, portata avanti per mezzo del linguaggio.

Wittgenstein parla di “padronanza di una tecnica”, e la storia può essere letta in maniera diversa. Nessun colonialismo: Israele – scrive Probst – può essere visto come una sorta polizza di assicurazione sulla vita, per gli ebrei; non fa parte del progetto europeo ma è il suo contrario: è un prodotto della fuga dal razzismo bianco, da quell’antisemitismo a cui gli ebrei sono stati (e sono tuttora) esposti per due millenni. In questa prospettiva Israele reagisce a un male precedente e il Paese è quindi giustificato in linea di principio. E la “tecnica” utilizzata per questa visione comprende una critica fondamentale della teoria postcoloniale, che viene a sua volta trasformata nel suo opposto. Quella che era stata concepita come una teoria della liberazione (dalle condizioni coloniali e dai loro tenaci postumi) appare poi come l’ultima variante di un eterno antisemitismo: chiunque dica apartheid demonizza e delegittima Israele e nega la particolare necessità di protezione degli ebrei. Questa rappresentazione è utile o inutile? La risposta di Wittgenstein potrebbe essere: «Sì, è utile, ma solo per quest’area strettamente definita, non per l’insieme che si pretende di rappresentare». Ed è qualcosa che può valere per tutte le teorie e per tutti gli slogan sul conflitto mediorientale: sono sempre troppo ampî e confondono aspetti parziali con l’insieme. Wittgenstein chiama coloro che usano il linguaggio in questo modo “ciechi di aspetto”. Quando gli studenti gridano “Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera”, slogan dell’Olp che risale agli anni Sessanta, ignorano che nel mondo arabo esiste un grave antisemitismo musulmano, con legami con la tradizione nazista, che si raccoglie dietro lo stesso slogan. Tuttavia, coloro che vogliono criminalizzarlo trascurano il fatto che molti studenti vorrebbero uno Stato democratico binazionale, scrive Probst inserendo una nuova variabile che contrasta con la soluzione due popoli due stati, con uguali diritti per tutti. Ma non è possibile guardare contemporaneamente al coniglio e all’anatra.