È finita l’età dell’oro: costruiamone un’altra

Quando arrivai negli Stati Uniti alla fine degli anni ’90, ebbi subito la sensazione di essermi trasferito in una nuova Gerusalemme, di aver fatto una specie di Aliah “a stelle e strisce”. Gli ebrei erano ovunque e la loro partecipazione al tessuto sociale, culturale, accademico ed economico della società non era solo riconosciuta ma ampiamente celebrata: era la Golden Age – l’età dorata – dell’ebraismo americano.
Potevi accendere la TV ed ascoltare la canzone di Hanukkah di Adam Sandler o guardare Seinfeld, la sit-com più popolare di sempre: “lo show sul nulla” o meglio sulle piccole nevrosi quotidiane di Jerry Seinfeld, un comico ebreo dell’Upper West Side di New York e dei suoi amici.
Avevo iniziato in quegli anni un Master e ricordo ancora, pochi giorni dopo l’inizio delle lezioni, un compagno di classe bostoniano WASP, che mi confidava il suo disappunto perché “non c’erano abbastanza ebrei del corso”. Come a dire che il numero di studenti ebrei era un chiaro indice del prestigio e rigore accademico del corso.
E quando le adolescenti MacKenzie e Madison si lamentarono con i loro genitori che era ingiusto che le Shoshana e le Sara fossero al centro dell’universo per un fine settimana, iniziarono ad apparire i primi faux mitzvah, dei simil bat mitzvah per non ebrei senza la sinagoga, la parasha, la derasha, ma con la hora, la banda klezmer e le sedie volanti.
Ripensando con nostalgia allo splendore di quegli anni, mi rendo conto che forse si sia trattato solo di una breve vacanza nel lungo arco della storia. A ribadire il cambiamento dei tempi, il mese scorso, The Atlantic, una delle riviste americane più importanti e prestigiose, recitava in copertina: “L’età dorata dell’ebraismo americano sta finendo”. Un concetto ormai ovvio a tutti dopo il 7 ottobre ma che già Tablet, una pubblicazione ebraica, aveva espresso più di due anni fa con un deprimente editoriale intitolato “L’ebreo scomparso”, che sottolineava il sinistro crollo del numero di ebrei nelle istituzioni d’élite. Non era necessario essere un acuto osservatore della società americana per vedere lo Zeitgeist cambiare negli ultimi anni, con segnali, grandi e piccoli, locali e nazionali, che iniziavano a comparire ovunque. Sempre più forti e sempre più frequenti. Dall’esclusione degli attivisti ebrei nell’organizzazione della “Women’s March” del 2017, all’esposizione in bella mostra come “lettura da non perdere” del libro di Linda Sarsour, una nota antisemita, nella libreria storica del mio quartiere a Washington D.C.
Alla scuola pubblica delle mie figlie che invita a tenere un seminario un’organizzazione ambientalista, lo stesso gruppo che la settimana prima si era rifiutato pubblicamente di partecipare a un evento insieme ad associazioni ebraiche, a dimostrazione che non c’è più alcun prezzo da pagare per l’antisemitismo dichiarato, purché l’antisemita sventoli la bandiera di una causa “progressista”. E poi le sempre più frequenti storie orrende di studenti ebrei bullizzati ed emarginati nei campus universitari.
Ed è così che in certi ambienti sociali culturali ed accademici, per essere “cool” è condizione necessaria una certa antipatia verso gli ebrei e dover recitare a pappagallo la frase “Israel is a colonial, genocidal, apartheid state”. Anche se sei andato ai loro bat mitzvah, hai ballato la hora con le loro famiglie o hai detto Mazal Tov e Happy Hanukkah.
Noi ebrei americani stiamo affrontando questa perdita – la fine della nostra Golden Age – come un lutto. Qualcuno è ancora nella fase di negazione perché non vuole arrendersi all’evidenza. L’accettazione – la fase finale dell’elaborazione di un lutto – richiede l’ammissione del seguente fatto ormai ovvio: l’età dorata è finita perché l’America liberal ha voltato le spalle agli ebrei e i nostri alleati storici ci hanno tradito. Le stesse istituzioni accademiche e culturali che abbiamo contribuito in modo così importante a creare e a raggiungere il loro splendore si stanno allontanando dal vero liberalismo e si stanno rivoltando contro di noi. Per quanto doloroso per molti, negare l’evidenza non aiuta a voltare pagina. L’antisemitismo dell’estrema destra ovviamente esiste, e può essere mortale, come nel massacro alla Tree of Life Synagogue di Pittsburgh nel 2018. Ma anche dopo la marcia dei suprematisti bianchi su Charlottesville, con una folla inferocita che urlava “Gli ebrei non ci sostituiranno”, nessuno ha pensato alla fine di un’era per gli ebrei americani. Cosa invece evidente dopo che le presidenti di due istituzioni accademiche d’elite come Harvard e UPenn, hanno fatto capire chiaramente che ingraziarsi i peggiori antisemiti era per loro più importante che proteggere i propri studenti e docenti ebrei nei loro campus. Abbiamo investito molto in relazioni e istituzioni, le stesse che ora ci vedono con sospetto, il che rende difficile tagliare il cordone. E per questo motivo c’è il serio rischio che la comunità ebraica cada in una sorta di sunk cost fallacy: ostinarsi nel cercare di salvare relazioni ormai fallimentari.
Ma dobbiamo renderci conto che gli amici cambiano, le istituzioni cambiano. Marciare con Martin Luther King Jr. a Selma, in Alabama, è radicalmente diverso dallo schierarsi al fianco di Black Lives Matter, organizzazione neo-marxista e apologeta di Hamas.
Come sostiene l’autrice Bari Weiss, dobbiamo lasciare andare il passato e costruire con entusiasmo nuove alleanze. E preoccuparci di rafforzare la nostra identità. Dobbiamo abbandonare le istituzioni che a malapena ci tollerano. Anche quelle che abbiamo così generosamente finanziato: saranno molto più povere, e non solo economicamente, senza di noi. Harvard sarà Harvard senza ebrei? Ne dubito sinceramente. E impegnarci a costruire nuove istituzioni o inondare – con la nostra partecipazione e i nostri finanziamenti – quelle che continuano a celebrarci.
La comunità ebraica americana è troppo forte, economicamente e culturalmente, per elemosinare l’accettazione di coloro che le hanno voltato le spalle. Prima ce ne rendiamo conto, prima potremo procedere verso la creazione di una nuova Golden Age. E se ciò non sarà possibile, Israele sarà lì per noi.

Paolo Curiel

(Foto © Lev Radin)