IRAN – Israele non vede novità nell’elezione di Pezeshkian

Per Israele l’inattesa vittoria alle presidenziali iraniane di Masoud Pezeshkian, candidato della corrente riformista, non rappresenta una svolta positiva. «Non c’è da aspettarsi alcun cambiamento nelle politiche regionali dell’Iran. È difficile pensare che Pezeshkian voglia o possa modificare la linea anti-Israele» del regime, spiega su Yedioth Ahronoth Raz Zimmt. Soprattutto perché, aggiunge l’analista dell’Institute for National Security Studies, in politica estera «tutto o quasi è in mano ai Guardiani della rivoluzione». Sono i pasdaran, sotto la guida suprema dell’ayatollah Ali Khamenei – a cui il nuovo presidente ha ribadito piena fedeltà –, a detenere le chiavi dei rapporti con milizie e gruppi del terrore in Medio Oriente, dai palestinesi di Hamas e Jihad islamica ai libanesi di Hezbollah.
Per Gerusalemme la presidenza di Pezeshkian, cardiochirurgo di 69 anni con stretti legami con l’ex ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif, rappresenta una sfida sul piano dei rapporti internazionali. Ha un profilo moderato (primo presidente riformista da 20 anni) e può trovare sponde in Occidente per aiutare il regime a rompere il proprio isolamento, soprattutto economico.
Parlamentare per 16 anni e ministro della Salute fra il 2001 e il 2005 durante la presidenza del riformista Mohammad Khatami, Pezeshkian «mantiene la reputazione di outsider», sottolinea il quotidiano economico israeliano Globes. È di origini azere, una delle minoranze etniche dell’Iran, e nel corso degli anni ha promosso e sostenuto l’uso della lingua azera. «Il che gli ha fatto guadagnare popolarità tra le comunità che cercano una maggiore autonomia in Iran, dove domina la cultura persiana», spiega Globes.
Nel 2009, aggiunge Israel Hayom, ha criticato la repressione delle proteste dopo la vittoria presidenziale dell’ultraconservatore Mahmud Ahmadinejad, noto negazionista della Shoah. Nel 2022 ha chiesto chiarimenti sulla morte di Mahsa Amini, arrestata e uccisa dalla polizia perché accusata di portare male l’hijab (il velo utilizzato dalle donne musulmane per coprire la testa e il collo). «La sua storia personale, quella di un padre che ha cresciuto tre figli da solo dopo la morte della moglie e di un figlio in un incidente stradale, ne arricchisce il fattore umano», sottolinea Israel Hayom.
Tutto questo non deve confondere, dichiara al Jerusalem Post, Meir Javedanfar, docente dell’Università Reichman. «Pezeshkian è una figura dell’establishment. Nonostante sia un riformista, ha stretti rapporti con il “deep state” (stato profondo). Credo che Khamenei gli abbia permesso di candidarsi perché si è reso conto che l’Iran ha bisogno di attuare riforme interne, soprattutto in campo economico».
La vittoria del riformista, afferma l’analista Danny Citrinowicz in un commento sul sito dell’Institute for National Security Studies, è soprattutto «un voto al meno peggio». Dal basso c’è «una richiesta di cambiamento», ma Pezeshkian «è un politico debole e il suo compito è molto difficile». Dall’altro lato, aggiunge Citrinowicz, non si può escludere a priori la sua capacità di «modificare la traiettoria del paese» perché inserirà «elementi più moderati all’interno dei processi decisionali iraniani». Modifiche che, conferma Citrinowicz, non toccheranno i rapporti con il nemico Israele.
Dal punto di vista dello stato ebraico la situazione assomiglia alle elezioni del 2013, vinte dal riformista Hassan Rouhani, spiega su Zman il giornalista Amir Bar Shalom, esperto dell’International Institute for Counter-Terrorism. «In quel momento l’Iran ha aggredito il mondo, ma lo ha fatto mascherato con un sorriso». La storia, avverte Bar Shalom, potrebbe ripetersi.

d.r.