Tzoreff: Al-Sisi punta molto all’ordine, Gerusalemme lo sostenga

Per oltre quattro decenni il trattato di pace tra Israele ed Egitto «ha resistito a innumerevoli tensioni e guerre regionali. Mai prima d’ora si era parlato di un rischio per la sua tenuta». Per questo i segnali di crisi arrivati dal Cairo negli ultimi mesi devono essere presi sul serio, avverte Mira Tzoref. Le operazioni nella zona di Rafah dell’esercito israeliano, il controllo di Tsahal sul valico al confine con il Sinai e alcune dichiarazioni dei ministri di Gerusalemme hanno profondamente irritato l’Egitto, che in questa guerra sta giocando una propria partita. «Per capire la posizione del presidente Abdel Fattah al-Sisi bisogna analizzare il contesto di politica interna in cui si muove», spiega Tzoreff, docente del dipartimento di Storia del Medio Oriente e dell’Africa dell’Università di Tel Aviv. «Da dieci anni al-Sisi ha impegnato forze militari ed energie per ripulire il Sinai dalla presenza di Daesh (l’Isis) e di altre milizie islamiste. Molto sangue di soldati egiziani è stato versato per far tornare la penisola una destinazione turistica appetibile. È uno dei pochi risultati che il presidente può rivendicare. Ma appena la guerra a Gaza è iniziata, il turismo nel Sinai è di nuovo sprofondato. Chi mai andrebbe in una zona di confine con una guerra?».
Da quando è iniziata l’operazione di Tsahal contro Hamas il generale al-Sisi ha tracciato una linea rossa invalicabile: non consentirà l’insediamento di centinaia di migliaia di profughi palestinesi nel Sinai. «Tra i funzionari israeliani c’è chi ha suggerito questa possibilità, ma il Cairo la considera un pericolo dal punto di vista economico e della sicurezza interna», sottolinea Tzoreff. L’Egitto, segnato da una profonda e prolungata crisi economica, avrebbe difficoltà ad affrontare un’emergenza rifugiati anche in presenza di aiuti internazionali.
Inoltre, ha dichiarato il presidente-generale, nei campi profughi potrebbero stabilirsi anche i terroristi di Hamas, trasformando il Sinai in una nuova terra di conflitto. «Il governo israeliano ha fatto in questi mesi delle valutazioni sbagliate. Fa pressione su Stati Uniti e paesi europei affinché al-Sisi apra il confine con Gaza, ma il presidente non lo farà. Se non per il passaggio controllato di aiuti umanitari. A Gerusalemme si dimentica che il primo a sigillare molti tunnel di Hamas è stato proprio il generale tra il 2014 e il 2015. E ha ignorato l’accusa di essere un traditore lanciatagli da parte del mondo arabo». Tenere lontano i terroristi palestinesi, legati al movimento islamista dei Fratelli musulmani, è prioritario per il Cairo. Anche perché al potere al-Sisi ci è arrivato destituendo nel 2013 proprio il rappresentante egiziano dei Fratelli musulmani, l’allora presidente Mohamed Morsi. «Dobbiamo ricordare quali sono i nostri partner nella regione. L’Egitto oggi è un mediatore credibile, ha la fiducia di entrambe le parti e ha interessi diretti nel risolvere la situazione. Si affida alla realpolitik e vuole per Gaza un governo guidato dall’Autorità nazionale palestinese. Non è il Qatar, che si presenta come mediatore neutrale, ma esclude di pianificare un futuro per l’enclave senza Hamas». Per Al-Sisi la guerra è stata dunque un’occasione per assumere centralità internazionale, dopo le tante critiche per le continue violazioni dei diritti umani del suo regime. Critiche che non ne scalfiscono il potere.
Il suo problema rimane la solidità economica del paese. «La disoccupazione è alta e il 60% dei 103milioni di egiziani, soprattutto giovani, vive vicino o sotto la soglia di povertà. Il paese è prima di tutto un’economia agricola e il progetto dell’Etiopia di un maxi-diga sul Nilo rischia di prosciugarne le risorse idriche. Inoltre l’invasione russa dell’Ucraina ha dato un colpo alle importazioni di grano (fino al 2020 Russia e Ucraina fornivano l’86% delle importazioni egiziane di questo cereale), con ricadute profonde sui costi e quindi sulla popolazione. Ora la guerra a Gaza ha dato un nuovo colpo al turismo, che rappresenta il 12% del Pil del paese. E si è aggiunta la minaccia degli Huthi che, con i loro missili nel Mar Rosso, danneggiano enormemente i commerci nel canale di Suez, su cui gli egiziani hanno investito molto per rimodernarlo».
Al-Sisi, sottolinea la docente, «è seduto su una polveriera». E l’Egitto ha una lunga storia di insurrezioni popolari, come racconta l’ultimo saggio di Tzoreff, scritto con il direttore del Centro Moshe Dayan Uri Rabi e intitolato Dalla rivoluzione del 1919 alla primavera araba del 2011. Nel volume si indagano tre rivoluzioni incompiute – 1919, 1952 e 2011 – della storia egiziana. Tutte hanno cambiato l’assetto del paese, nessuna ha raggiunto fino in fondo gli obiettivi prefissati. Ma rappresentano un monito per chi oggi detiene il potere: il popolo può sempre ribellarsi. Come è accaduto nel 2011 in Piazza Tahrir, cuore della protesta che portò alla destituzione del presidente Hosni Mubarak. Tzoreff ricorda l’incomprensione occidentale di questa rivoluzione.
«Pensavamo, dal presidente Barack Obama in giù, che l’esito sarebbe stato la democrazia. Ma non prestavamo attenzione a cosa volevano gli egiziani. Non democrazia, ma una vita normale. Ordine sociale e libertà di parola». Al-Sisi, con i suoi metodi da autocrate, si è impegnato a preservare il primo. «Così, ascolta i rumori della piazza, che per il momento gli concede tempo». Nessuno, a partire dagli Stati Uniti, vuole che l’Egitto si destabilizzi. «Ci sarebbero ripercussioni su Israele e sulla regione. Anche l’Europa è terrorizzata da una crisi migratoria», ha dichiarato al Financial Times Riccardo Fabiani, direttore per il Nord Africa dell’International Crisis Group. «Quando si dice che l’Egitto è troppo grande per fallire, è vero». Ma Israele, secondo Tzoreff, non deve fare l’errore di «tirare troppo la corda con il Cairo. Quando il premier Benjamin Netanyahu parla di occupare il Corridoio di Filadelfia (una zona cuscinetto che, secondo un accordo del 2005, separa l’Egitto da Israele e dalla Striscia di Gaza) genera dure reazioni da parte dell’Egitto e accende l’opinione pubblica». Gli egiziani ricordano ancora la bruciante sconfitta subita da Israele nel 1967 e la perdita del Sinai. Un territorio restituito dopo un’altra guerra e un trattato di pace per cui il firmatario egiziano, il presidente Anwar Sadat, fu ucciso. «Al-Sisi non ha interesse a mettere la pace in discussione, non gli conviene», conclude Tzoreff . «E Gerusalemme dovrebbe aiutarlo a spegnere il fuoco interno, non aizzarlo».

Daniel Reichel

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