ENOLOGIA – Breve storia del vino kasher

Cos’è il vino? La domanda è tutt’altro che banale. Basti ricordare che il vino in Italia è definito quale il prodotto della fermentazione dell’uva (Vitis vinifera, L.) con decreto del Presidente della Repubblica (DPR 930 del 12.7.1963). La norma, che mette al bando i succhi fermentati di altre specie, ha riordinato il complesso di leggi e regolamenti risalenti ai primi 30 anni del 1900.
Ma facciamo un passo indietro. La vite è coltivata da tempo immemorabile: nella Torà già Noè aveva scoperto la coltivazione della vite e le gustose proprietà del suo succo, specie se consumato dopo qualche tempo cosicché avesse il tempo di migliorare le sue qualità. Da secoli il succo dell’uva è sottoposto a fermentazione; secoli durante i quali nessuno comprese il meccanismo della sua trasformazione in vino. Si dovette attendere la seconda metà dell’Ottocento perché Louis Pasteur (1822- 1895) scoprisse i lieviti del vino. L’11 aprile 1865 il chimico e microbiologo francese depositò un brevetto per «procédé de conservation et d’amélioration des vins par chauffage modéré à l’abri de l’air» (processo per conservare e migliorare i vini attraverso un moderato riscaldamento in assenza di aria). Era la scoperta della stabilizzazione del vino attraverso il riscaldamento: a questo punto è lecito affermare che l’inventore del vino mevushal (cotto) non fu un rabbino ma Pasteur.
Storicamente il sistema di regolamentazione europea è basato sul sistema francese. La Francia da un lato è dotata di una burocrazia efficiente e relativamente agile; dall’altro è climaticamente fortunata, con una serie di regioni che permettono la produzione di uve e vini diversi, tutti di qualità. Di conseguenza ha potuto imporsi a livello europeo, facendo sì che le norme vitivinicole continentali rispecchiassero le proprie. La produzione francese spazia, in modo differenziato ma sempre di pregio, dalla valle del Reno alla costa atlantica, fino alle pendici dei Pirenei. Diversa ma sempre pregiata è la produzione della Valle del Rodano e delle pendici occidentali delle Alpi, nonché quelle del Massiccio centrale.
La Gran Bretagna è invece troppo settentrionale per lo sviluppo di una viticoltura significativa. Negli Stati Uniti esiste poi un’importante produzione vitivinicola in California, che però non è mai stata autoctona, ma ha sempre copiato e adottato le viti dell’Europa: quelle presenti naturalmente in America (Vitis riparia e V. labrusca) non danno un prodotto di pregio enologico. Tuttavia hanno dimostrato una dote importante: sono resistenti alle affezioni patologiche (Peronospora e Fillossera) che hanno quasi portato all’estinzione la tradizionale viticoltura europea. Sono state quindi utilizzate quali portainnesti per le viti del Vecchio continente. In America, dove la viticoltura avrebbe potuto espandersi, si sviluppò invece un movimento ideologico che contrastò lo sviluppo dell’enologia: il proibizionismo. Per tutti gli anni ‘20 del XX il consumo di alcool fu vietato e criminalizzato. È chiaro che in condizioni di disprezzo morale era difficile che si sviluppasse ed evolvesse un’enologia di pregio. È divertente riferire un episodio che mi capitò nel profondo Sud, in Florida. Era il 1964 e andai dal dentista per ricevere alcune cure mediche.
Quando ne uscii, era il primo pomeriggio, avevo la bocca dolente. Ignaro delle stigmate morali, pensai di ricorrere a un risciacquo: entrai tranquillamente in un bar e ordinai un Cognac: la risposta, indignata, fu che “a quell’ora” non servivano alcolici. Se proprio ne volevo, potevo tornare alla sera. Ma non dimenticherò il disprezzo dello sguardo del barista che mi considerò un consumatore depravato!
In Israele la viticoltura fu uno dei primi settori sviluppato grazie al supporto del Barone Edmond de Rothschild. Già negli anni ‘80 dell’Ottocento il barone si adoperava a favore dei molti ebrei perseguitati in Russia e nell’Europa orientale, aiutandoli a insediarsi nella Palestina ottomana. Creò così dei villaggi che precedettero l’insediamento sionista. Per dare lavoro a questa popolazione di nuovi immigrati attinse alla propria esperienza, ma era chiaro che non avrebbero potuto divenire tutti banchieri. Viceversa Rothschild aveva un’affermata esperienza agricola: la produzione di uva e la sua trasformazione in vino. Così fece sorgere una serie di piccole città nell’area centrale della Palestina ottomana tutte volte alla produzione vitivinicola. Rishon Le Zion, Zichron Ya’akov e altre divennero i principali centri dediti a questa attività. Rothschild portò in Palestina tutta l’organizzazione di stampo francese, non fosse altro perché in Francia si trovavano le sue aziende e le sue tenute. Allo stesso tempo una larga parte del Movimento sionista si appoggiava alle comunità ebraiche dei Paesi anglosassoni, Gran Bretagna e Usa. Se da queste comunità gli insediamenti potevano ricevere un generoso supporto economico, non si può dire altrettanto del supporto normativo per lo sviluppo delle vigne e delle cantine nel nascente Yshuv. Scarsi produttori, gli ebrei anglosassoni si fecero però buoni consumatori. Se bere vino costituiva un’azione di cui vergognarsi, quando si trattava di vino israeliano la considerazione si capovolgeva: più vino si beveva (o si offriva agli amici) maggiore era il beneficio per gli ebrei di Israele. Bere diventava così una buona azione. Il mercato anglofono divenne un’importante area di sfogo e distribuzione dei prodotti dei vigneti di Israele. E tuttavia della scarsa conoscenza del settore vitivinifero di quel mondo leggiamo ancora oggi sull’etichetta di una bottiglia della Carmel che scrive ancorché solo in ebraico “vino di concorde”, ossia di Vitis labrusca, dicitura che, alla luce della legislazione illustrata sopra, equivale a dichiarare apertis verbis che non è vino, non almeno ai sensi della legge italiana. Oltre a tutto se si vuole offrire al consumatore (goloso, ma per nulla intenditore) un succo dolce, si può ottenere lo stesso risultato con il succo di Vitis vinifera, lavorato in modo appropriato. Se il riscaldamento ipotizzato da Pasteur e approvato dai rabbini per rendere il vino mevushal si applica al mosto appena spremuto, si evita una prolungata fermentazione: il succo dell’uva resta così dolce e quindi gradevole anche per il palato di un non intenditore, senza creare problemi di specie e quindi di correttezza della berachà. Il requisito per pronunciare correttamente la berachà è che sia “frutto della vite” (cioè Vitis vinifera).

Roberto Jona, agronomo