ISRAELE – Angelica Calò Livnè: Perché Unifil non tiene Hezbollah a distanza?
«Qui da noi funziona così: prima senti il botto e poi la sirena. Come a Majdal Shams».
È un rumore purtroppo familiare per gli abitanti del kibbutz Sasa in Alta Galilea, da sempre e ancora di più dopo il 7 ottobre. Migliaia i missili passati sopra le loro teste in questi mesi, lanciati da Hezbollah appena oltre il confine con il Libano. Quel confine che i pochi residenti rimasti a presidiare il kibbutz scrutano in queste ore con particolare angoscia. «I missili ci passano appena sopra, a volte di fianco. Puntano ad alcune basi militari vicine, ma hanno colpito Sasa più volte», racconta l’educatrice di origine romana Angelica Edna Calò Livne, una delle colonne del kibbutz.
«Qui da noi funziona così: prima senti il botto e poi la sirena. Come a Majdal Shams».
È un rumore purtroppo familiare per gli abitanti del kibbutz Sasa in Alta Galilea, da sempre e ancora di più dopo il 7 ottobre. Migliaia i missili passati sopra le loro teste in questi mesi, lanciati da Hezbollah appena oltre il confine con il Libano. Quel confine che i pochi residenti rimasti a presidiare il kibbutz scrutano in queste ore con particolare angoscia. «I missili ci passano appena sopra, a volte di fianco. Puntano ad alcune basi militari vicine, ma hanno colpito Sasa più volte», racconta l’educatrice di origine romana Angelica Edna Calò Livne, una delle colonne del kibbutz.
L’auditorium in particolare è stato danneggiato da un missile di fabbricazione russa con la gittata di cinque chilometri, ma è capitato che alcuni ordigni esplodessero anche nel frutteto durante la raccolta delle mele. «Rispetto ai primi mesi di guerra, dei pochi che eravamo oggi siamo ancora meno. Dormiamo tutti nella stanza blindata, a parte la squadra di difesa incaricata di vigilare sulla sicurezza di Sasa. Anche per loro, comunque, alcune aree sono off-limits», spiega Angelica. Tra i sentimenti prevalenti di queste ore «più che la paura sento molta rabbia, anche nei confronti del contingente Unifil che dovrebbe in teoria vigilare affinché i terroristi rimangano alla debita distanza da Israele; e invece sono qui, vicini, appena oltre confine. Sono pronti per entrare in Israele a piedi, in qualunque momento, addestrati con foglietti in tasca con le istruzioni su come uccidere, violentare, rapire. Hanno capito, d’altronde, che gli ostaggi possono rappresentare una montagna d’oro». Per un’attivista per il dialogo come Angelica «fa rabbia anche non poter pensare a nulla di positivo». Con qualche eccezione per fortuna. «La donna araba che lavora con noi in cucina, una mia grande amica, mi ha fatto vedere la foto di alcuni regali acquistati per i suoi nipotini. Mi ha poi raccontato di averli comprati a Jenin. Anche il nostro elettricista, pure lui arabo, mi ha detto che per i suoi acquisti si reca lì. Ho pensato allora che non tutto è perduto, che alcuni canali sono ancora aperti, che esiste ancora una speranza per un futuro di pace per israeliani e palestinesi».