SCAFFALE – La nascita di Israele vista da occhi femminili e altre storie di donne ebree

Il volume Donne ebree protagoniste tra il XIX e il XX secolo, a cura di Elisa Bianchi e Paola Vita Finzi (Guerini e Associati, Milano, 2023) rappresenta non solo uno studio altamente illuminante e istruttivo, ma anche un testo di assai gradevole lettura, che coinvolge in un avvincente percorso di conoscenza e riflessione. In esso confluiscono gli atti del seminario “Emancipazione e istruzione. Donne ebree a cavallo tra XIX e XX secolo”, tenutosi a Milano il 3 novembre 2022 a Palazzo Morando, organizzato congiuntamente dall’Associazione Italiana Amici dell’Università di Gerusalemme, dal circolo “il nuovo Convegno” e dalla Commissione Pari Opportunità e Diritti Civili del Comune di Milano.
“Il soggetto del seminario”, spiega nella Introduzione Elisa Bianchi, Presidente dell’Associazione Italiana Amici dell’Università di Gerusalemme, “rientra a pieno titolo nei cosiddetti ‘studi di genere’. … Questi studi non sono circoscrivibili a una specifica area di ricerca, ma rappresentano in specie una modalità di interpretazione, pertanto sono studi interdisciplinari, il risultato di metodologie differenti che abbracciano diversi aspetti della vita e società, tra individuo e cultura”.
Oggetto specifico del seminario e del volume da esso scaturito è il contributo dato da alcune significative figure femminili, tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, alla complessiva promozione civile e culturale della società, in particolare nel campo dell’istruzione e dell’emancipazione femminile, ma non solo.
Si tratta di dodici saggi, scritti da studiose (tutte donne) di varia formazione culturale, nei quali vengono ricostruite le storie personali di diverse donne (alcuni delle quali – come Anna Kuliscioff e Amelia Rosselli – largamente conosciute, altri meno), e anche il generale apporto fornito dalle donne ebree alla crescita di alcune specifiche realtà culturali e produttive, come l’educazione, l’istruzione e la manifattura tessile.
Il libro offre uno spaccato affascinante della storia d’Italia, nei duri anni che videro, dopo la creazione del regno, il faticoso sforzo per l’alfabetizzazione, l’industrializzazione e la modernizzazione di un Paese segnato da larghe fasce di sottosviluppo e arretratezza – ostacolato per quasi ottant’anni, fra l’altro, dal mancato riconoscimento del nuovo Stato da parte del Vaticano –, l’avventura coloniale, i grandi fermenti culturali degli inizi del Novecento, la Grande Guerra, il precipizio nella dittatura fascista, l’infamia delle Leggi Razziali, fino alla catastrofe del ’39-45.
Al centro dell’indagine, l’impegno di persone volenterose che, in diversi ambiti e situazioni, e con differenti motivazioni, hanno contribuito, in vario modo, e con vari esiti, alla crescita della società civile, combattendo, contemporaneamente, contro il doppio ostacolo di appartenere a due categorie entrambe, in diverso modo, discriminate: donne ed ebree. Categorie, ovviamente, molto diverse sul piano quantitativo, comprendendo la prima più della metà del genere umano, l’altra una esigua minoranza. Essere portatrici di entrambi gli “handicap” avrebbe dovuto schiacciare queste figure sotto il peso di un giogo insostenibile. Eppure, nonostante tutto, questa condizione sembra essersi rivelata, alquanto misteriosamente, un elemento non di debolezza, ma di forza.
Non potendo, naturalmente, passare in rassegna i contenuti dei vari capitoli del libro, vogliamo unicamente menzionare il saggio di Margalit Shilo, l’unico scritto non in lingua italiana, e dedicato non alla storia europea, ma a quella del Medio Oriente, e segnatamente della Palestina al tempo dell’impero ottomano e poi del mandato britannico: Ita Yellin and Yehudit Harari’s Life Stories: the Path of Empowered Jewish Women into the Public Sphere.
Il contributo, di particolare interesse, offre al lettore degli elementi importanti per comprendere la peculiare realtà di una storia che viene sistematicamente appiattita sulla stereotipata e superficiale visione della contesa per una medesima terra da parte di due popoli ineluttabilmente condannati – quasi per decreto divino – ad essere contrapposti. Cosa sia successo prima, come si sia arrivati alla situazione del 1947, poi del 1948, del 1967, del 1973 ecc. sembra non interessare a nessuno. Così come sembra non interessare il ruolo svolto dai molti altri protagonisti: turchi, inglesi, tedeschi, Paesi arabi vari e altri ancora. Anzi, sembra che ci sia una voluta e deliberata rimozione di una realtà che, per la sua complessità e articolazione, non si concilia con la semplicistica e falsa narrazione di una semplice disputa territoriale tra due contendenti. Cosa c’era “prima”? In che modo una landa di terra dimenticata da Dio e dagli uomini, assai scarsamente abitata, in gran parte desertica e infestata dalla malaria e dai predoni (per avere un’idea, basta leggere gli articoli scritti da Matilde Serao, fondatrice de Il Mattino, raccolti in un libro pubblicato nel 1901: Viaggio in Palestina) si è trovata a diventare una regione al centro dell’attenzione internazionale, quasi ogni giorno sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo?
L’articolo trae spunto dalle autobiografie di due donne (entrambe pubblicate in ebraico, ed entrambe in due volumi) che hanno personalmente contribuito alla crescita di quella terra e alla rinascita dello Stato di Israele: My Memoirs: for my Children, di Ita Yellin, nata Pines (1868-1943), stampata a Gerusalemme nel 1938 e 1941, e Between the Vineyards, di Yehudit Harari, nata Eisenberg (1885-1980), edita a Tel Aviv nel 1947. Entrambe emigrarono in Palestina da bambine, per stabilirsi la prima a Gerusalemme, la seconda a Tel Aviv-Jaffa.
Dal racconto delle loro intense vite si ricavano degli elementi di grande interesse riguardo al perenne contrasto – ancora, com’è noto, tutt’altro che risolto – tra le diverse anime della popolazione ebraica della nazione in formazione. La famiglia di Ita Yellin era di forte osservanza religiosa, e si inserì tra gli ebrei ortodossi di Gerusalemme, che vivevano in condizioni di estrema povertà, considerandosi una comunità santa, interamente presa dallo zelo religioso, nel totale rifiuto di ogni forma di modernità. Il padre di Ita, Yehiel Michel Pines, credeva invece nella possibilità e necessità di trovare degli elementi di collegamento tra le antiche tradizioni e le nuove esigenze di vita, dovute alla rapida crescita e trasformazione della società, e si impegnò su questo fronte, compito che fu portato avanti, tra grandi difficoltà, dalla figlia, che rifiutò di trasferirsi in Sud Africa, dove le si offrivano migliori condizioni di vita: “My parents came to the impoverished Eretz Israel to revive it, so how could I possibly abandon it for a land of plenty? We must endure and do all we can to bring it back to life” (“I miei genitori sono venuti nella poverissima Eretz Israel per farla rinascere, come potrei quindi abbandonarla per una terra dell’abbondanza? Dobbiamo resistere e fare tutto il possibile per riportarla in vita“).
Ma, al di là del conflitto tra tradizione e modernità, emergeva anche l’esigenza di plasmare nelle nuove generazioni, provenienti da tanti Paesi diversi, un nuovo senso di appartenenza: e così Yehudit Harari fondò, ad appena sedici anni, una scuola a Rehovot, per poi insegnare l’ebraico alle scolare dell’Evelina de Rotschild Kindergarten di Gerusalemme, dove la lingua comune adoperata era l’inglese: “To Judaize seven hundreds girls of Jerusalem”, scrive. “and to instill in them this national sentiment is most captivating to me” (“Giudaizzare settecento ragazze di Gerusalemme e instillare in loro questo sentimento nazionale è per me molto affascinante”).
Tradurre in italiano l’espressione “to Judaize” appare, certamente, problematico, così come, in generale, la lettura del saggio della Shilo – oltre a sollecitare un sentimento di grande ammirazione per l’energia e l’impegno di queste due coraggiose pioniere – trasmette un quadro di grandi aporie e contraddizioni, tuttora irrisolte. E pone, soprattutto, una domanda di fondo, che resta senza risposta: in che modo si sarebbe plasmata la rinata identità d’Israele, senza il collante “forzato” generato dalle perenni esigenze difensive contro un mondo esterno ostile?

Scaffale è a cura di Francesco Lucrezi, docente di Diritti antichi all’Università di Salerno

(Nell’immagine, una foto di Yehudit Harari del 1906)