ARTE – Una navicella ebraica nel padiglione tedesco

Come un marchio tragicamente evocativo, ritroviamo, intorno al padiglione della Germania, gli stessi volantini rossi sparpagliati da ANGA davanti a quello israeliano, a mettere in guardia che anche lì si annida lo stesso pericolo, che anche quello è un «padiglione del genocidio». In effetti, dei due artisti invitati a esporvi, Yael Bartana è israeliana, anche se vive da anni a Berlino e Amsterdam, anche se nella biennale del 2011 ha rappresentato la Polonia. Ersan Mondtag è invece turco e, nel suo Monumento a una persona sconosciuta, la soglia (il tema che informa il padiglione è Thresholds, soglie) è l’edificio stesso, spartiacque tra memoria collettiva e memoria personale. Come altri artisti prima di lui – pensiamo a Hans Haacke che nel 1993 ha ridotto in frantumi il pavimento o a Maria Eichhorn che nel 2022 ha scarnificato le pareti per ritrovare le tracce dell’edificio originario – Mondtag contesta l’architettura monumentale decisa da Hitler nel corso della sua visita con Mussolini nel 1938. Con l’intento di celarla, sporcarla e dissacrarla, addossa alla facciata retorica e simmetrica esistente un ingente mucchio di terra portata dall’Anatolia. All’interno ricostruisce la vicenda tragica di suo nonno, Hasan Aygun, emigrato nel 1960 a Berlino per trovare la morte a causa delle esalazioni di amianto nella fabbrica dove lavorava. Con la stessa terra erige al centro del padiglione una torretta rotonda, accessibile a pochi visitatori alla volta: a tre piani, ospita nel primo una realtà industriale, polverosissima, piena di frammenti di legno e ferro, mentre nei due piani superiori è ricostruita, stanza per stanza, la casa del nonno, polverosa e fatiscente. Così il “monumento a una persona sconosciuta” diventa un “contro-monumento”: di terra, dunque temporaneo e reversibile, non celebra ma denuncia la tirannide nazista, lo sfruttamento capitalistico degli immigrati e gli incidenti sul lavoro.
Diversissimo il lavoro di Bartana, scenografico e complesso, attraverso il quale ci guida, in video, Doreet LeVitte-Harten, storica dell’arte israeliana che ha soggiornato a lungo in Germania. Ci avverte subito che si tratta di una finzione scientifica, l’unico mezzo oggi disponibile per parlare di utopia. E tale è infatti l’avventura avvincente ed eroica di Generation Ship Light to the Nations, una grande navetta spaziale, inventata all’inizio del XX secolo dal fisico Goddart, che, nella versione realizzata dall’artista, è sia un prototipo che impegna un ambiente del padiglione sia una immagine che attraversa lo spazio nel video Farewell, proiettato su un grande schermo curvo che, occupando l’abside voluto da Hitler come approdo sacro del padiglione, lo nasconde e smaterializza; sia, infine, il video immersivo Life in the Generation Ship quando, sdraiati su comodi cuscini, viviamo nel mondo meraviglioso e lussureggiante dei pochi fortunati abitanti della nave. Quale lo scopo di tale avveniristica navetta? La sua creazione si è resa necessaria a causa di una tragedia ambientale, l’innalzamento cioè del livello del mare che ha sommerso Tel Aviv e sta per raggiungere Gerusalemme. Invaso dall’acqua, Israele non è più abitabile; occorre abbandonarlo per portare in salvo gli abitanti in un luogo disabitato e, grazie a sopraluoghi preventivi effettuati da robot, praticabile. C’è però un ostacolo: la navetta può ospitare al massimo 98 persone. Come selezionarle? In base all’intelligenza, alle condizioni fisiche e alla professione: quest’ultima deve consentire il funzionamento del mezzo di trasporto per un numero lunghissimo di anni, in condizioni imprevedibili, con un alto tasso di radioattività.
Nell’offrire una via di salvezza alla stessa umanità che ha fatto di tutto per distruggere e rendere inabitabile il mondo, risiede il carattere messianico della “generation ship”. Light to the Nation nasce del resto da una prospettiva ebraica, non condivisa da altre religioni. Presuppone infatti il concetto di “makom” sia come luogo fisico sia come attributo di D-o. L’ebraismo, come si sa, predilige il tempo sullo spazio, non attribuisce alcun valore al luogo come entità fisica. Il Tempio di Gerusalemme non è mai stato ricostruito, la sua rovina è per gli ebrei il più sacro dei luoghi e la tradizione si trasmette oralmente, attraverso la lingua e il Libro. La navicella, allora, che decolla dalla Terra per viaggiare nello spazio sfida la definizione di “makom” come realtà materiale. Ci consente infatti di lasciare un luogo contaminato, dandogli la possibilità di salvarsi o quantomeno di migliorarsi. È il “tikkun olam”, la riparazione del mondo, contenuta per la prima volta nella Mishnà e poi reinterpretata nei secoli successivi, fino a oggi. Come riparare il mondo? Abbandonandolo, suggerisce Bartana, per la sua e per la nostra salvezza. La nave è allora «un mezzo per una opzione messianica», è il «somaro del Messia». E il threshold dell’artista è nel confine tra una tecnologia avanzatissima e una sapienza cabalistica antichissima.
Quanto al nome della navetta ebraica, con spiccata auto-ironia e senso auto-critico la voce narrante ammette che Light to the Nations è appropriato perché sufficientemente arrogante: esprime infatti la convinzione che il popolo d’Israele sia veramente quello destinato a mostrare al mondo la via della salvezza attraverso l’etica, la morale, il decoro. Su tale esempio, ogni popolo dovrebbe auspicabilmente costruire la propria “generation ship”, salvandone la cultura, la religione e la civiltà. Si potrebbe pensare addirittura a una intera flotta! Ma che ne sarà della navetta dopo questo viaggio dall’imprevedibile durata? Come per il Messia, la risposta è nella speranza e nell’attesa del suo ritorno.

Adachiara Zevi