SHIRIM – Il ghiacciaio, Primo Levi

Il ghiacciaio

Sostammo, e avventurammo lo sguardo
giù per le verdi fauci dolenti,
e ci si sciolse il vigore nel petto
come quando si perde una speranza.
Dentro gli dorme una forza triste:
e quando, nel silenzio della luna,
a notte rado stride e rugge,
è perché, nel suo letto di pietra,
torpido sognatore gigante,
lotta per rigirarsi e non può.

Di questi onirici versi di Primo Levi incanta, prima d’ogni altra suggestione, l’imago iniziale: “sostammo…”
Il tempo del mondo appare interrotto, come sospeso nell’atto di custodire intatta una visione di sogno ritornante. Ancor prima che il perchè del fermarsi sia svelato, il verso irrompe d’un improvviso lampo, catturando come un’ansia previa, placandola, costruendo, nel solo verbo schiudente, l’attesa del meraviglioso.
Alla divina quiete d’un passo montano s’arriva, talvolta, come per caso o fortuna.
La bellezza prosciuga i fiati, già fievoli per la fatica d’andare, ma la voce s’affioca e muore, ché la meraviglia silenzia le lingue, infrange gli sguardi incastrandoli in inattese malie.
L’inumano splendore risucchia il nerbo. Ci si sente franti, dissolti, ché innanzi all’elementale potenza georgica nulla d’umano può insorgere. Si sta come incoscienti, sedotti sul limitare tra l’essere e il morire. Poco più in là, viridi baratri misteriosi attendono, brulicanti, come tante bocche già pronte a trarre in inganno, inghiottire.
Il mostro di ghiaccio si staglia prodigioso e terribile, nel crudele, adamantino profilo. La luna stessa pare bramarlo, tentare d’attrarlo per l’arcano pallore d’oscura, immortale fanciulla.
Tutto in lui è eterno, come lo stridere dei trepidi tessuti ghiaccii e il cuore grave di pietra, immolato, incastonato per sempre nell’antro remotissimo.
E il sibilo umano soccombe, dolente, perduto, a tentar d’empire gli organi trafitti pel morente fiato.

Shirim è a cura di Mariateresa Amabile, poetessa e docente di Diritti Antichi all’Università di Salerno