SOCIETÀ – Hussein Mansour, dalla fascinazione per il jihad a quella per Israele 

«La mia generazione è probabilmente la più indottrinata, nella storia moderna della regione», sostiene l’analista egiziano-americano Hussein Aboubakr Mansour, fuggito dal regime di Morsi nel 2012 e ora impegnato in una battaglia contro l’estremismo a Washington. Come ha ricordato Gianluca Pacchiani sul Times of Israel il 14 agosto Mansour, 35 anni, è stato recentemente nominato ricercatore senior presso il Jerusalem Center for Foreign Affairs (JCFA), il think tank israeliano noto in precedenza come  Jerusalem Center for Public Affairs.
Prima del 7 ottobre, Israele e l’Arabia Saudita erano sul punto di stabilire relazioni diplomatiche: uno degli obiettivi di Hamas era fermare un processo di normalizzazione che avrebbe avuto ripercussioni in tutta la regione portando alla firma di accordi di pace tra Israele e altri Paesi musulmani moderati. Mansour – la cui missione è la creazione di una nuova realtà politica e culturale regionale in cui Israele sia accettato dalle potenze arabe dominanti – sostiene che se la tendenza alla normalizzazione continua, la prossima generazione di arabi sarà culturalmente immune all’arma principale dell’Iran: l’ideologia. «Oggi c’è un allineamento tra il modo in cui alcuni arabi vedono le cose e il modo in cui le vedono gli israeliani. Sappiamo che Israele è qui per restare, e che la creazione di uno Stato palestinese non è il vero catalizzatore di questo conflitto: l’Iran lo è». Nella sua autobiografia, intitolata Minority of One: The Unchaining of an Arab Mind, pubblicata nel 2020, Mansour racconta il suo percorso: nato nel 1989 al Cairo in una famiglia musulmana, è cresciuto in un ambiente intriso di antisemitismo e di idee anti-israeliane: «Per decenni l’Egitto è stato l’Iran della regione – spiega – e l’opposizione a Israele è stata uno dei pilastri ideologici del regime del presidente egiziano Gamal Abdul Nasser, che ha guidato il Paese tra il 1956 e il 1970 plasmando l’identità nazionale egiziana. Anche se il suo successore, Anwar Sadat, ha firmato un accordo di pace con Israele nel 1979, la svolta diplomatica non si è mai tradotta nell’accettazione di Israele da parte della popolazione egiziana». Da adolescente – «come quasi tutti i giovani arabi musulmani» – Mansour ha fantasticato di diventare un jihadista. La sua maggiore età ha coinciso con l’ondata di radicalizzazione nel mondo arabo generata dalla Seconda Intifada, dall’11 settembre, le guerre in Iraq e Afghanistan e ancora l’ascesa di Al Jazeera con la sua incendiaria retorica contro Occidente e Israele. Incuriosito da tutto ciò che riguardava gli ebrei, però, Mansour ha iniziato a imparare l’ebraico, e più scopriva la società israeliana, più si rendeva conto «della ridicolaggine di ciò che la gente [in Egitto] pensa di loro». Quando nel 2009 ha iniziato a frequentare il centro accademico israeliano annesso all’ambasciata israeliana al Cairo ha attirato i sospetti dei funzionari dei servizi segreti egiziani, che lo hanno sorvegliato, molestato e infine imprigionato. Poi la sua partecipazione alle proteste della Primavera araba nel 2011 l’ha messo in pericolo; è quindi fuggito negli Stati Uniti, dove ha ottenuto asilo politico. Negli Usa Mansour ha iniziato a tenere conferenze e a scrivere articoli per varie pubblicazioni ebraiche su argomenti che vanno dalla storia moderna del mondo arabo al marxismo, all’antisemitismo e alla politica occidentale. Insiste sul fatto che non vuole essere visto come un “arabo di facciata” che fa hasbarà per Israele. «Ho passato la mia vita a cercare di capire perché sono cresciuto in questo modo, perché il Medio Oriente è in queste condizioni e perché l’antisemitismo è così grave nelle società arabe. – ha aggiunto – Quando si vedono immagini di famiglie palestinesi che truccano i loro figli come combattenti di Hamas, bisogna chiedersi perché. Io non sono palestinese, ma sono comunque arabo. Vengo da queste persone, le conosco. Non sono demoni, sono esseri umani. Sono i membri della mia famiglia». Mansour fa risalire le origini dell’estremismo arabo, sia laico che religioso, all’influenza di un ramo specifico della filosofia tedesca sul Medio Oriente all’inizio del XX secolo. «Le ideologie rivoluzionarie tedesche hanno avuto un profondo impatto sugli intellettuali arabi a partire dalla fine del XIX secolo, e i loro principi hanno plasmato l’identità araba moderna e il nazionalismo arabo, ma anche l’identità musulmana. È questa la linea di pensiero che ha portato alla nascita dell’islamismo come lotta per realizzare il significato dell’Islam nella storia, e una componente fondamentale di questo modo di pensare è l’antisemitismo, grazie anche all’intensa campagna di propaganda condotta dal Terzo Reich in Medio Oriente durante la Seconda guerra mondiale. L’analisi intellettuale però non fornisce risposte concrete: «La soluzione sta nei politici e negli statisti, e nella strategia di unire gli arabi e gli israeliani per contrastare l’Iran e il suo marchio di islamismo». Nel suo nuovo ruolo di attivista a Washington, Mansour ha la possibilità di lavorare con i diplomatici dei Paesi arabi, molti dei quali sono allineati con la sua visione. «A livello personale, ci sono questioni che anche loro comprendono, come la profondità del problema dell’antisemitismo nella regione. Capiscono che, in sostanza, l’accettazione di Israele è la nuova cartina di tornasole per gli arabi, tra coloro che appartengono al precedente secolo di distruzione e coloro che l’hanno superato. A livello personale. Gli ebrei sono oggi la vera cartina di tornasole».