Simona Lo Iacono, creatrice di Virdimura

È un giorno piovoso di una torrida estate catanese del 1302, forse shabbat. Virdimura nasce e sua madre muore lasciandola al maestro Urìa, medico ebreo, «il più alto dei giudei, il più forte, il più santo». Per la figlia, Urìa crea un nome che non esiste, ispirato al muschio verde delle mura di Catania. Virdimura avrà una vita straordinaria come quel nome. Suo padre parla arabo, aramaico e siciliano, risana i corpi e le anime senza far distinzione tra sessi, religioni, ceti sociali. Lei fin da piccola imparerà i segreti della cura seguendo sempre il precetto paterno: «La medicina non esige bravura. Solo coraggio». Quel coraggio che la porterà ad affrontare la Commissione di giudici e a farsi riconoscere, prima donna nella storia, la licentia curandi.
A narrare una figura femminile così lontana nel tempo ma così contemporanea nell’impegno per la libertà delle donne e i diritti dei più fragili è l’ultimo libro di Simona Lo Iacono, Virdimura (Guanda). Siracusana, magistrato della Sezione minori e famiglia presso la Corte d’Appello di Catania, Lo Iacono è autrice di raccolte poetiche e romanzi che spesso hanno per protagonisti personaggi storici. Come Giuseppe Tomasi di Lampedusa ne L’albatro (Neri Pozza, 2019), Anna Maria Ortese ne Il mistero di Anna (Neri Pozza, 2022). O come, ne La Tigre di Noto (Neri Pozza, 2022), la scienziata Marianna Ciccone che nel 1944 salvò dai nazisti i libri ebraici della biblioteca dell’Università di Pisa.

Simona Lo Iacono, come sceglie gli interpreti delle sue storie?
«La scelta dei personaggi è come se non dipendesse da me. Le storie mi sono arrivate attraverso altri, in dono. Ma quando arriva una storia bisogna essere pronti, avere una sensibilità che aiuti a riconoscerla, a farla nostra».

Virdimura è una “iudea”. La Tigre di Noto salva una biblioteca di testi ebraici. In Effatà (BEAT, 2021), si affacciano i verbali del processo di Norimberga e gli esperimenti di eugenetica compiuti dai nazisti sui bambini. Lei scrive spesso di tematiche che hanno a che fare con l’ebraismo e gli ebrei…
«Non ho origini ebraiche ma, da sempre, una profonda affinità con quel mondo che mi deriva dallo studio del testo biblico. Sono un’appassionata della lettura della Sacra Bibbia. Moltissimo della mentalità e dell’afflato religioso ebraico mi è familiare. Così l’uso di termini, le citazioni e alcune descrizioni in Virdimura per me sono state piuttosto semplici. Ho sempre vissuto la forte presenza ebraica che anima la mia città perché abito nel quartiere storico a ridosso della Giudecca di Siracusa. Sotto casa ho gli antichi mikvaot, i bagni rituali, e gli ipogei che pare ospitassero l’antica sinagoga. Quando nel 1492 gli ebrei furono cacciati dalla Sicilia, i luoghi di culto vennero chiusi e insabbiati per evitare che fossero toccati da mani impure. Nel tempo, questi siti sono pian piano riemersi e hanno un fascino incredibile: insabbiati e murati si sono conservati praticamente incorrotti».

Torniamo all’ incontro con Virdimura. Com’ è successo?
«La figlia di maestro Urìa l’ho incontrata in udienza. Come magistrato anziano, stavo seguendo la formazione di una brava, giovanissima collega. Una mattina mi dice di aver fatto un’interessante gita nei sotterranei di Catania e di aver visitato la Giudecca, a otto metri sotto il livello del suolo. La guida le ha raccontato che in quelle strade si muoveva Virdimura Iudea, che per prima aveva avuto l’autorizzazione ufficiale a esperire arte medica.C’erano già delle dutturisse ma il loro campo d’azione andava dal parto agli aborti, alle affezioni ginecologiche, situazioni comunque legate al femminile. Virdimura invece riceverà una concessione che le consentirà di praticare la cura in generale, dunque anche la cosiddetta “arte chirurgica delle carni”, la chirurgia. Una novità dirompente e, per la prima volta, in capo a una donna».

Perché ha deciso di scriverne?
«Non mi davo pace che questa storia fosse rimasta così nascosta e mi sono messa sulle tracce di Virdimura. Mi sono subito imbattuta in un documento in latino custodito dall’Archivio storico di Palermo che ho allegato alla fine del romanzo. Da lì è partita una ricerca per niente facile. C’era poco, oltre all’atto storico. Ricordi popolari, qualche riferimento sparso nei ricettari quattrocenteschi. Tutto il resto è stato frutto di una ricostruzione certosina».

Anche per gli uomini di Virdimura, il padre, il marito, il suocero, ci sono riscontri storici?
«In parte sì. Un altro documento d’archivio la chiama “Virdimura Iudea uxor Pascalis De medico”, cioè moglie di Pasquale De medico. Ma c’è anche molta invenzione letteraria».

Nei suoi romanzi la lingua sembra sempre adeguata all’epoca in cui la storia è ambientata. In Virdimura la scrittura ha un ritmo antico e spesso lei cita parole, usi e preghiere della tradizione ebraica. Anche questo è frutto di una ricerca?
«Un poco di ebraico lo conosco solo da autodidatta, grazie alla lettura dei Testi. Lo studio dei Salmi, soprattutto, mi ha aiutato a comprendere la struttura religiosa del popolo ebraico. Il salmo ha cadenze poetiche di grande bellezza e anche di natura musicale. Ha un andamento struggente, sacro, un cuore a cuore tra l’uomo e D-o. E quando in Virdimura faccio incursione nell’ebraico, è sempre per introdurre elementi della liturgia, visto che nella quotidianità a quei tempi persino gli ebrei parlavano arabo. Comunque con le parole bisogna lavorare, perché ciò che distingue una storia dall’altra non è la trama ma l’uso della lingua. La letteratura è la lingua e ogni storia è il suo linguaggio».

Laura Ballio Morpurgo