MUSICA – Cantiamo anche nell’afflizione, non scompariremo

Scrivere di musica? Anche no. Non bisogna essere necessariamente felici e in pace per far musica e parlarne; anzi, la musica prodotta in cattività durante la Seconda Guerra Mondiale dimostra esattamente il contrario.
Quanto accade ci sta mettendo a durissima prova come popolo ebraico; ammesso che la fortezza dei nostri pensieri, delle nostre azioni e dello stesso essere ebrei stia reggendo il più spaventoso e inenarrabile tsunami della nostra Storia dopo la Shoah, stanno venendo meno altre cose figlie del quotidiano ma pur sempre pertinenti la nostra vita.
Parlo a titolo personale ma son sicuro riguardi tanti altri correligionari.
Piangere? È giusto, persino necessario; ma troppe lacrime ci offuscheranno la vista, il nemico le interpreterà come atto di debolezza, mentre le truppe cammellate festeggeranno.
E allora, alla maniera di Rudyard Kipling, ricostruiamo da utensili rotti e schegge di esistenza; andiamo avanti a disegnare non soltanto una linea spazio-temporale ma anche un progetto.
Il grande compositore Viktor Ullmann intuì la natura dei compimenti epocali che avrebbero tragicamente rivoluzionato il pensiero umano dopo la Guerra; nel suo testo Goethe und Ghetto del 1944 (nella pronuncia tedesca, i due termini sono anagrammi l’un dell’altro), scrisse che Terezìn «è servita a stimolare, non a impedire le mie attività musicali e che in nessun modo ci siamo seduti sulle sponde dei fiumi di Babilonia a piangere; il nostro rispetto per l’Arte era parimenti commisurato alla nostra voglia di vivere. Io sono convinto che tutti coloro, nella vita come nell’arte, che lottano per imporre un ordine al Caos, saranno d’accordo con me».
Non cantammo in Babilonia né tantomeno dopo la distruzione del Bet ha-Mikdash, il lutto ci attanagliò e ci tolse il respiro; ma cantammo a Terezìn, cantammo recandoci alla Gaskammer, cantammo sulla banchina del treno per Dachau, cantammo imbarcandoci da La Spezia e Bari per la Palestina mandataria, cantammo nel giugno 1967 a Beer Sheva durante la Guerra dei Sei Giorni, ripetendo a bassa voce il leitmotiv della Rapsody in Blue di Gershwin mentre Leonard Bernstein la suonava al pianoforte per l’esercito israeliano e cantammo persino durante la stagione degli attentati quando musicisti suonavano per le strade di Tel Aviv e Bat Yam per rincuorare chi rimaneva in casa.
Il canto è l’espressione fisiologica della vita, è l’atto notarile che sigilla il nostro esistere; suonando, cantando e creando musica stendiamo in tempo reale una letteratura dell’anima.
Consapevoli della svolta storica, non abbiamo più appeso le cetre agli alberi come recita il Salmo 136 ma abbiamo riparato alla biblica rinuncia babilonese.
Il 7 ottobre 2023 era Simchat Torah, quel giorno sciagurato comprendemmo che la vita di ogni ebreo è tuttora in pericolo, che l’Europa ha passato 80 anni a dire “Mai più” per disintegrarsi alla prima drammatica prova, che la Shoah non ha assolutamente insegnato nulla al genere umano; da quel giorno, la mia stessa vita di ebreo è congelata, ma mi dico ancora una volta di andare avanti.
Perché la posta in gioco in Medio Oriente e nella Diaspora è molto alta, perché l’Europa deve ancora decidere cosa farà da grande ma nel frattempo guarda a Israele in modo ambiguo senza aver risolto i rapporti con il proprio passato, perché sarebbe più facile per l’Occidente abbandonare Israele al proprio destino che prendersi carico delle proprie responsabilità.
Cosa spinse lo scrittore polacco Tadeusz Borowski, sopravvissuto ad Auschwitz e Dachau, a scrivere nel suo libro Il mondo di pietra che Auschwitz non fu un «infelice incidente di percorso nella Storia dell’Umanità», bensì la «quintessenza dell’Umanità, non un’eccezione ma la regola»?
Una risposta è estremamente difficile, al di sopra delle umane possibilità; per la cronaca, Borowski si suicidò nel suo appartamento di Varsavia il 1 giugno 1951.
Il musicista intuì precocemente il pericolo esistenziale del lager ma, con grande sforzo dell’intelletto e del cuore, rovesciò la massiccia piramide dei valori ponendo in cima la base, ossia il genere umano.
Il mondo futuro non sarà né tondo né piatto ma assomiglierà a una piramide rovesciata, avrà il suono di un interminabile canto che si perpetua di generazione in generazione vivendo come lievito madre.
Szymon Laks (foto), compositore e direttore dell’orchestra maschile di Birkenau, era un ebreo assimilato che aveva rotto con la religione e la tradizione ebraica ma, dopo l’esperienza del lager, recuperò l’ebraicità nella sua musica; nel giugno 1967 Israele uscì vittorioso dalla Guerra dei Sei Giorni ma nonostante ciò Laks, profondamente sionista, smise di comporre musica.
Anni dopo confidò al figlio André che, dopo quel conflitto, scrivere musica aveva perduto ai suoi occhi ogni significato; il popolo ebraico era nuovamente minacciato, qualcuno desiderava ancora la sua scomparsa e la propria musica non sarebbe sopravvissuta a una nuova aggressione.
Il pensiero di Laks, frutto di grandi sofferenze e amare sintesi esistenziali, ci obbliga a una risposta.
Non ci chiuderemo nel dolore ma procederemo al passo dei nostri bambini, come disse Giacobbe (Israele) a suo fratello Esaù (l’Occidente); i bambini ci precedono per cadenzare i passi, le scelte.
La musica è una strada maestra che conduce l’uomo non necessariamente alla soluzione dei problemi ma sicuramente alla loro piena conoscenza; come afferma lo scrittore britannico Nick Hornby, «la musica ha il grande potere di condurti nel medesimo momento indietro e avanti nel tempo, così che tu provi contemporaneamente nostalgia e speranza».
Prima che il suono arrivi alle corde vocali, l’anima di un uomo già canta quando avverte pericolo e angoscia che d’improvviso scorrono sullo schermo dell’esistenza come ombre di un teatro cinese; c’è un ponte che attraversa i più cruciali crocevia della Storia ed è la musica ai tempi dell’afflizione.
Non daremo a nessuno la soddisfazione di scomparire; questa sarà la nostra vittoria.

Francesco Lotoro