SCAFFALE – Il giorno in cui il comunismo divenne antinazista

Paolo Mieli, com’è noto, oltre a essere un grande giornalista, è certamente uno storico di alto valore, e anche un raffinato scrittore. La sua prosa, sempre chiara, limpida, essenziale, riesce a conquistare il lettore, come anche la serenità e l’equilibrio dei suoi giudizi, abitualmente lontani da ogni forma di eccesso e sensazionalismo. Nella sua recente raccolta di saggi Il secolo autoritario. Perché i buoni non vincono mai (Rizzoli, Milano, 2023) sono raccolti una serie di saggi aventi a oggetto tematiche varie, tutte in qualche modo collegabili – almeno, nelle intenzioni dell’autore – al tema delle derive autoritarie e tiranniche della politica di ieri e di oggi. Da un punto di vista scientifico, è da dire che l’accostamento di testi dedicati ad epoche ed esperienze storiche tanto diverse le une dalle altre (a Artemisia, regina di Alicarnasso, ai tribuni della plebe romani, da Gregorio VII ai Templari, da Guglielmo II al Cardinale Borromeo, da Catilina al terrorismo islamico e altro ancora) è alquanto discutibile. Non solo la maggior parte dei saggi non ha nulla a che vedere con la storia del XX e del XXI secolo (l’autore afferma che «è doveroso chiederci se come ‘secolo autoritario’ non vada più considerato il Novecento, ma piuttosto quello attuale. Il primo del terzo millennio. Il secolo in cui stiamo vivendo»), ma è anche difficile trovare in essi un filo conduttore comune. Un’idea di “autoritarismo” comune a tutte le epoche e a tutte le latitudini, semplicemente, non esiste, e cercare di crearla artificialmente rappresenta un esperimento alquanto ingenuo, simile a chiedersi se Alessandro Magno, Giulio Cesare o Garibaldi fossero “di destra o di sinistra”. Sarebbe stato senz’altro meglio, e più onesto verso il lettore, se l’autore avesse intitolato la sua silloge, semplicemente, Scritti di storia o qualcosa del genere. I templari e San Simonino martire non hanno proprio niente a che fare col “secolo autoritario”, sia esso il XX o il XXI. Poi, ovviamente, nella storia tutto può essere, in qualche modo, collegato, ma per farlo non è certo sufficiente accomunare dei testi in un unico contenitore, con un accattivante titolo ad effetto. I singoli saggi della raccolta, considerati singolarmente, sono comunque interessanti, e si lasciano leggere volentieri.

Ad avere particolarmente colpito la mia attenzione, anche dal punto di vista delle tematiche ebraiche, oggetto di questa rubrica, è stato soprattutto il primo saggio, intitolato I “protocolli segreti” del patto Molotov-Ribbentrop nel quale l’autore svela aspetti poco conosciuti del famoso patto di non belligeranza sottoscritto, poco prima dello scoppio della guerra, attraverso i loro ambasciatori, tra i due dittatori tedesco e sovietico. Giustamente Mieli nota che «nella ingiustificata euforia del secondo dopoguerra il mondo intero è stato … indotto a tralasciare l’analisi del senso profondo che aveva avuto la saldatura ‘temporanea’ (ventidue mesi) dei due grandi sistemi autoritari europei, quello nazista e quello comunista. La guerra fredda poi fece il resto. Nel senso che la contrapposizione tra Occidente e universo staliniano ostacolò un’indagine storiografica riconosciuta come valida da entrambe le parti su cosa avesse reso possibile quella saldatura». Fu più facile considerarla una sorta di “incidente di percorso”, di “accidente della storia”. Eppure, quella “saldatura” cela in sé delle chiavi di lettura essenziali per la comprensione della “vera natura” tanto del nazismo quanto del bolscevismo, nonché della vera natura della Seconda Guerra Mondiale. E solleva delle domande di grande rilievo su quali avrebbero potuto essere i suoi esiti, se, una volta iniziata la guerra, si fossero verificate alcune circostanze diverse. Perché, come ho avuto più volte occasione di spiegare, la famosa frase “la storia non si fa con i ‘se’” è profondamente sbagliata. La storia è invece proprio la scienza (o l’arte) dei ‘se’, serve proprio a fare riflettere non solo su cosa è accaduto, e sul perché è accaduto, ma anche su cosa non è accaduto, perché non è accaduto, e cosa sarebbe poi successo se invece fosse accaduto. È un continuo, inesauribile laboratorio di fantasia.
Mieli ricostruisce, sulla base di una solida documentazione, i retroscena e i conciliaboli riservati che portarono le due potenze a firmare a Mosca – il 23 agosto del 1939, esattamente otto giorni prima dell’invasione della Polonia – il patto di non aggressione, e anche il “protocollo segreto” che fu sottoscritto nella notte tra il 23 e il 24, col quale i due regimi si accordarono sulla spartizione del Paese invaso e sul riconoscimento delle reciproche sfere d’influenza.
Essendo entrambi due dittatori assoluti e onnipotenti, ovviamente, né Hitler né Stalin avevano alcuna necessità di rendere conto alle rispettive opinioni pubbliche (pur ignare del protocollo aggiuntivo segreto) del mutamento di rapporti tra i due ex acerrimi nemici, ora diventati, improvvisamente, e come d’incanto, di fatto, alleati. E tuttavia, i giornali tedeschi e russi, che da anni tuonavano, rispettivamente, contro il pericolo bolscevico e nazi-fascista, si impegnarono entrambi a spiegare, con qualche malcelato imbarazzo, che le differenze ideologiche tra i due sistemi non dovevano impedire una sana e leale cooperazione, in nome degli interessi comuni. Ci fu, pare, come si dice, qualche “mal di pancia”, ma tutto andò benissimo, fino a che, il 22 giugno del 1941, Hitler scatenò l’operazione Barbarossa.

In realtà, tra i due regimi le somiglianze erano di gran lunga superiori alle differenze. Erano entrambi caratterizzati dal rigido totalitarismo, dal morboso culto della personalità, dall’inclinazione alla violenza, dal radicato e viscerale odio verso ogni forma di pensiero liberale, dal disprezzo di ogni minoranza. Quanto all’antisemitismo, non si può dire che fosse un elemento fondante dell’ideologia comunista allo stesso modo in cui lo era per il nazismo, ma era comunque un tratto antico e profondamente radicato della cultura russa, col quale il comunismo conviveva benissimo.
Insomma, i due regimi avrebbero potuto benissimo restare alleati per sempre. Nei ventidue mesi della “saldatura” Stalin gongolava a vedere i massacri “inter-imperialisti” (così venivano definiti in Russia). Se fossero morti tutti gli europei, ne sarebbe stato contento, e, se proprio avesse dovuto fare il tifo per qualcuno, certamente lo avrebbe fatto per il suo amico col baffetto. La “saldatura” non si ruppe certo per motivi ideologici, ma esclusivamente per la megalomania del Führer, che non voleva dividere con nessuno il suo inarrestabile trionfo, e fece la sua scelta suicida. Fu solo in quel preciso momento, il 22 giugno 1941, che il comunismo diventò antinazista, mentre prima era stato l’esatto contrario. E, volendo fare la storia dei “se”, la risposta alla domanda ipotetica: “Se Hitler non avesse attaccato la Russia, quest’ultima sarebbe mai intervenuta a difesa delle democrazie occidentali?”, la risposta è facile, ed è una sola: “no, mai”. All’altra domanda: “e cosa sarebbe quindi accaduto?”, è invece molto difficile rispondere.

Scaffale è a cura di Francesco Lucrezi, docente di Diritti antichi all’Università di Salerno