ISRAELE – Gli italkim raccontano un “normale” giorno di guerra

Il missile sparato all’alba da Hezbollah puntava al quartier generale del Mossad nel nord di Tel Aviv. È la prima volta che il gruppo terroristico libanese mira al centro d’Israele. «Era nell’aria», racconta a Pagine Ebraiche, Tana Abeni. Alle 6.30 la sua sveglia è stato l’allarme antimissile. «In realtà non ha suonato nel nostro quartiere, l’ho sentita in lontananza. Ho comunque svegliato mio marito e mia figlia e siamo scesi nel rifugio. Non abbiamo avuto paura, anche perché non ha suonato il telefono per dare l’allarme, quindi sapevamo che il missile non era vicino alla nostra abitazione». Hanno però sentito l’esplosione del missile intercettato dal sistema di difesa David’s Sling. «Non sapevamo da dove arrivasse, ma immaginavamo fosse stato sparato da Hezbollah, vista l’immediata minaccia». La giornata poi è proseguita nella piena normalità. «Il mio ufficio si trova davanti al quartier generale del Mossad a Glilot (nord di Tel Aviv), eppure non ci sono arrivate comunicazioni. E la mia azienda fa molta attenzione al benessere dei suoi dipendenti. Anche l’asilo era aperto. Tutto, o quasi, nella norma. Noi qui siamo dei privilegiati, non è come al nord o al sud».
Nelle ore successive sul nord sono piovuti decine di missili. Nel kibbutz Sa’ar (nell’immagine), a una decina di chilometri dal confine con il Libano, due persone sono rimaste ferite mentre correvano nei rifugi. «Qui spesso si gioca sui secondi», racconta Guido Sasson. Come Abeni, anche Sasson fa parte degli italkim, gli italiani d’Israele, ma di due generazioni precedenti. «Sono arrivato nel kibbutz Lavi, vicino a Tiberiade, nel 1967». Di guerre Sasson ne ha viste diverse e ora cerca di infondere tranquillità ai nipotini. «Viviamo a Mitspe Netofa, a poca distanza dal lago di Tiberiade. Fino a poche settimane da noi non si spingevano i missili di Hezbollah, ora è cambiato tutto. Nel nostro villaggio tutti hanno un rifugio e noi impieghiamo venti secondi per entrarci. È un tempo che può salvare la vita: qui vicino un razzo ha distrutto una casa e la famiglia che vi abitava è riuscita a entrare immediatamente nel rifugio, uscendo incolume». Chi ha dovuto al momento abbandonare la sua casa è uno dei figli di Sasson. Residente nel kibbutz Baram, è stato evacuato insieme alla moglie e i quattro figli. «Il confine con il Libano è a 500 metri. Non si sa quando potrà tornare. Per il momento ha trovato un’altra sistemazione, anche perché fortunatamente non lavora per il kibbutz. Ma non tutti sono in queste condizioni». Per Sasson, nonostante la necessità di colpire Hezbollah, è difficile vedere una fine militare a questo conflitto. «Credo che alla fine sarà necessaria una soluzione politica, anche se non so come si possa ottenere».
Se le cose dovessero peggiorare, ammette invece Abeni, «abbiamo la valigia pronta. Abbiamo una bambina di quattro anni e quest’anno è già stato abbastanza traumatico. Non vogliamo riviva il 7 ottobre e i giorni seguenti. Le abbiamo spiegato che gli allarmi sono dovuti a dei signori molto arrabbiati, ma ovviamente non le abbiamo detto tutto. Non vogliamo crearle ansie e noi abbiamo dissimulato le nostre preoccupazioni. Se dovesse esserci una nuova situazione critica, per il suo bene, lasceremo il paese».