7 OTTOBRE – Il ritorno della banalità del male

Ricordo di aver visto, nei giorni successivi alla strage del 7 ottobre 2023, pezzi di interrogatorio a due degli autori della stessa, fatti prigionieri dagli israeliani. Per tutto l’interrogatorio non c’era nulla di formale, era un locale anonimo, con un computer e una stampante, piuttosto vecchiotti, forse era un’aula scolastica. C’era un poliziotto, che non si vedeva, intento a interrogare un ragazzo arabo. Ascoltava con serietà, attenzione e massima calma il racconto di tanta sofferenza inflitta. Loro, i terroristi, sembravano tranquilli ragazzotti appena usciti da una discoteca che raccontavano, apparentemente senza costrizione (a parte le manette ai polsi), atti terribili, al limite dei crimini contro l’umanità, come se fossero normali atti quotidiani.
Questa scena mi ricorda gli interrogatori del criminale nazista Adolf Eichmann, uno degli organizzatori della “soluzione finale”, durante il suo processo a Gerusalemme nel 1961. Un piccolo uomo, bigio, quasi incapace di mettere insieme un discorso coerente, con gli occhi sempre puntati sulle sue scartoffie sparse sul tavolo, costantemente assente davanti alle testimonianze che sfilavano davanti alla corte e svelavano le turpi malefatte del nazismo cui lui aveva abbondantemente partecipato. La sua fu definita da Hannah Arendt, della quale peraltro non condivido il pensiero filosofico, con la folgorante definizione: «La banalità del male».
Anche questi ragazzi non sembravano affatto individui perversi e sadici, ma ragazzi incapaci di distinguere tra il bene e il male, fanatizzati e abituati fin da bambini a maneggiare le armi e a gridare “morte agli ebrei”, ad eccitarsi per una pallottola conficcata bene nel tiro a segno, allevati per uccidere. Sappiamo che uno di loro ha telefonato al padre e ha detto: «Ne ho uccisi dieci, sei fiero di me, papà?», Mi viene da pensare, guardando le riprese dell’interrogatorio, che avremmo preferito vedere sguardi truci, parole di odio e di disprezzo per gli israeliani, ci avrebbe confortato pensare che la passione talvolta trascina gli uomini e fa compiere loro gesti inconsulti. Niente di tutto ciò. Non riusciamo a scorgere nel volto di questi giovani che dicono tranquillamente «mi avevano promesso un appartamento per ogni ostaggio preso, più diecimila dollari, e io l’ho fatto». C’è una mancanza di idee e una insulsaggine infinita che fa perfino pena. La loro è stata crudeltà gratuita. I crimini filmati sono, in un certo senso, indipendenti dalla guerra, perché, con essi, non vinci di più e meglio sul tuo nemico. Quando avremo la mente più serena e saremo di nuovo capaci di ragionare dopo questo shock, qualcuno studierà la psicologia collettiva che guida i Jihadisti e forse saprà spiegarci la pulsione a fare dell’assassinio una propria ragione di vita.
Ci dispiace per loro, come ci dispiace vedere rimanere sotto le macerie civili palestinesi che non hanno voluto o potuto sfollare dalle loro case.
Ma noi qui, in Italia, fuori dal contesto della guerra, abbiamo alcuni doveri. Dobbiamo innanzitutto interrogarci sul nostro fallimento di persone educanti, abituate a richiamare la Shoah come una cesura temporale e logica tra quello che è stato e che non sarebbe mai più stato. Di solito comincio le mie lezioni dicendo: «Da secoli, non eravamo più abituati a vedere una caccia all’uomo come ci fu durante la Shoah: esseri che si chiudevano terrorizzati in un armadio o tenevano il fiato sospeso sotto a un letto». Raccontavo: «A questo, noi ci eravamo antropologicamente disabituati » e ora, ogni volta che parlo in pubblico, mi chiedo che cosa potrà mai raccontare agli studenti e al pubblico che avrò davanti, Il «mai più» è stato, purtroppo, ampiamente superato dagli avvenimenti.

Liliana Picciotto, storica della Fondazione CDEC