SCAFFALE – Con Salvati lo tzimtzum si fa romanzo

Com’è noto, un’antica tradizione cabalistica ebraica interpreta la nascita dell’Universo non come un un atto di “potenza” di Dio, come irrompere dell’essere nel nulla del vuoto preesistente, ma, al contrario, come uno tzimtzum, una “ritirata del Signore”, un suo “arretramento”. L’Altissimo prima era dovunque, e non esisteva nulla al di fuori di lui, lo spazio-tempo coincideva con la sua essenza infinita, senza inizio, senza fine, senza limiti. Ma, a un certo momento, il Signore – non più appagato dalla sua solitudine – si sarebbe “ritirato”, lasciando parte del suo infinito alla finitezza della materia, dello spazio e del tempo. L’uomo sarebbe così non tanto il frutto di una “creazione”, ma la conseguenza di un abbandono, di un’assenza, di una privazione della luce divina. Di qui un doloroso senso di incompletezza, un inappagabile desiderio di ricongiungimento con quel Signore che, creandolo, lo aveva in realtà abbandonato a una condizione di perenne privazione, plasmandolo, come recita il libro di Giobbe, come una creatura «nata per il dolore come l’uccello per il volo».
«Fecemi la divina potestate, la somma sapienza e il primo amore», è scritto sulla porta dell’Inferno dantesco. Le tre qualità della natura divina (tutte già presenti, sia pur diversamente raffigurate, nella visione ebraica) erano preesistenti, nella descrizione dantesca (mutuata da quella tomistica) alla genesi del mondo e dell’uomo. Un regno ultraterreno non esisteva, perché non esisteva alcuna realtà terrena. Se non c’era l’uomo, non c’era peccato, e non c’era quindi neanche bisogno di premio, espiazione e punizione. Solo dopo la creazione (o lo tzimtzum) nasce la loro esigenza, la cui origine è indicata dal poeta con parole lapidarie: «Giustizia mosse il mio alto fattore». La potenza, la sapienza e l’amore di Dio già esistevano, ma Egli era fermo e immobile nella sua eterna e infinita solitudine: «si mosse» solo per la realizzazione del valore supremo della Giustizia, che richiede un giudice e un giudicato.
Nella Commedia, essendo la giustizia realizzata dal giudizio divino, essa è ovviamente perfetta, infallibile, inappellabile. Ma potrà mai esserlo una giustizia realizzata non dall’Altissimo, ma dagli uomini? La risposta è superflua.
Lo tzimtzum ha lasciato l’uomo privo non solo di Dio, ma anche della sua Giustizia. «Tzèdek, tzèdek tirdòf», «la giustizia, la giustizia seguirai», si legge nel Deuteronomio. I saggi spiegano la ripetizione della parola con l’amara constatazione che la giustizia potrà e dovrà essere cercata, ma senza mai essere raggiunta. Solo una grande illusione, una grande ingenuità o una grande malafede permetterà a qualcuno di dire «giustizia è fatta», anche di fronte a quella che potrà apparire la più ineccepibile delle sentenze.
Mai i tribunali degli uomini potranno raggiungere tale obiettivo. Non a caso, nella storia e nella leggenda, di tutte le culture, non è mai ricordato un solo tribunale infallibile. Infallibili sono solo i sovrani-giudici, unici e solitari, attraverso i quali, in realtà, a sentenziare è lo stesso Signore: il re Salomone, l’imperatore Traiano (morto pagano, ma asceso in Paradiso in quanto già «pro coscientia Christianus»), san Luigi di Francia, il Saladino. Ma devono giudicare da soli, perché Dio illumina un uomo solo alla volta. La giustizia degli uomini «normali» lascia sempre tutti frustrati e insoddisfatti, carichi di un pesante fardello di amarezza, delusione, rancore. Nessun condannato in un processo penale accetterà di buon grado il castigo, la sua vittima non riceverà da esso nessun sollievo, e anche in una banale lite civile la parte soccombente maledirà i giudici che l’hanno condannata, e la controparte vittoriosa riterrà di avere avuto come riparazione troppo poco e troppo tardi.
Tzitzum. I giudici riluttanti (Castelvecchi Editore, Roma, 2024, pp. 153, euro 19,50) è il titolo di un romanzo (ma non so se è il termine adatto per definire il genere del libro: testo filosofico? teologico? fantascientifico? «auto-confessione pubblica» di un giudice tormentato? ricostruzione letteraria e psicanalitica di un subconscio rimosso? glossa al Processo di Kafka?) di Antonio Salvati, magistrato e scrittore (e non so, francamente, tra i due, quale sia il mestiere principale: ma è poi necessario stabilirlo?). In esso l’autore affronta, sotto la trama (o accanto, o sopra ad essa, difficile dire), il tema inquietante di cosa sia, cosa dovrebbe o potrebbe essere, la giustizia.
In un anno imprecisato del futuro (che potrebbe essere meno lontano di quanto si potrebbe pensare), constatato che «la giustizia degli uomini era diventata insopportabile», scoppia una «Rivoluzione», a seguito della quale si decide che a realizzare la giustizia non saranno più dei giudici umani, ma «una Voce: questa volta, però, senza margine di errore perché non più umana».
«Un essere pressoché perfetto, senza macchia e senza peccato: così, voi pensate, deve essere un giudice su questa terra», dice la Voce. E allora, se così deve essere, non c’è altra soluzione che costruire una giustizia non umana. Una sorta di Intelligenza Artificiale gelida, infasllibile e senz’anima. Essa sarà amministrata e applicata in una segreta, oscura e inespugnabile fortezza, senza più giudici né avvocati, dove saranno emanate delle sentenze perfette, implacabili, incontestabili. Niente più errore, perché niente più umanità. Non si potrà più dire «tzèdek, tzèdek tirdòf», la giustizia non dovrà essere più inseguita, ma si imporrà essa stessa, come un maglio inesorabile, sugli uomini, chiamati solo a subirla.
Nostalgia, forse, del passato? Di quando la giustizia era “umana” e, per ciò stessa, fallace?
Questo il libro, ovviamente, non ce lo dice. Il “giudice riluttante” resta muto e attonito, condannato, come sempre, a interrogarsi sulla incommensurabile distanza tra l’ideale divino di giustizia (quella che mosse “l’alto fattore”), ben difficile da vedere applicata, e la sua misera caricatura realizzata dagli uomini. E, più in generale, sulla misteriosa natura di quella dolente creatura di fango rosso a cui il Signore volle lasciare spazio il sesto giorno della sua “creazione”, o “ritirata”.

Francesco Lucrezi, storico