L’INTERVISTA – Matti Friedman: «Troppe divisioni e incompetenza: è tempo di cambiare»

«Gli israeliani hanno una capacità incredibile di andare avanti con le proprie vite in qualunque circostanza: le scuole sono aperte, le città sono tutto sommato sicure e allo stesso tempo ognuno di noi è preoccupato per le minacce esterne: ce ne sono almeno cinque diverse facilmente identificabili». Alla domanda ‘ciao Matti, come stai, come sta Israele?’, Matti Friedman risponde come un fiume. Ma non è una piena incontrollata quanto una lucida analisi sul presente, difficile, dello stato ebraico. Motivo di preoccupazione è anche «questa incredibile ondata di ostilità da parte dell’Occidente: molti dei nostri amici non ci hanno sostenuto abbastanza, in un modo che in tanti troviamo preoccupante. E a questo si aggiunge che una larga fetta della popolazione ha pochissima fiducia in questo governo che include voci estremiste, ministri che non hanno fatto il servizio militare e ministri che rappresentano chi non serve sotto le armi». La sfiducia è palpabile nelle parole dell’autore. Nato nel 1977 in Canada ma israeliano da una vita, quattro figli e alle spalle una brillante carriera da giornalista internazionale da lui stesso interrotta sbattendo la porta di una grande agenzia smascherata nel suo gioco di dipingere Israele sempre nello stesso modo – da aggressore – Matti Friedman è l’autore di una serie di libri di successo premiatissimi su scala globale. E con Pagine Ebraiche condivide la sua visione del mondo post 7 ottobre. «Si tratta», riprende, «di una combinazione di motivi esterni associati al cattivo funzionamento della politica. Eppure, in una fase così spaventosa servirebbe al contrario una leadership funzionante. In sostanza il paese è di umore pessimo a dispetto di qualche successo isolato».

«Strategia è saper decidere»
L’intervista segue di qualche ora la doppia ondata di esplosioni degli apparecchi di comunicazione di Hezbollah attribuita ai servizi segreti israeliani. Queste operazioni hanno il potere di migliorare lo spirito? «Sì e no. C’è stata una serie di impressionanti successi da parte del Mossad, anche a Teheran. Eppure, queste azioni non cambiano la situazione strategica: e tipicamente (il premier Benjamin) Netanyahu, che è al potere da una quindicina d’anni, non è un leader deciso. Il suo talento è sapere quello che non va fatto, e di solito ha ragione a riguardo. Ma non ha il dono della decisione». Che cosa vuoi dire? «Che se i successi di queste ore rappresentano il primo passo di una strategia contro Hezbollah per permettere il ritorno alle loro case di 70 mila sfollati, bene: allora siamo di fronte a un grande cambiamento. Un successo isolato non ci serve ». Pensi che una vittoria strategica su Hezbollah basterebbe a portare la pace sulla regione? «In questo ultimo anno ci siamo resi conto di come l’Iran si è organizzato in maniera eccellente: noi combattiamo contro i loro alleati mentre gli iraniani non subiscono perdite: non ci sarà un cambiamento strategico finché il regime di Teheran continuerà a perseguire i suoi scopi di dominazione regionale». E poi fa un esempio: «Conosci whack-amole, il gioco in cui tu hai un martello in mano e devi colpire la talpa ma non sai da quale buco uscirà? Stiamo giocando a questo gioco qua con gli alleati dell’Iran e in parte questo è anche dovuto al disimpegno degli Stati Uniti dal Medio Oriente rispetto a 15 anni fa». Mentre parliamo ci rendiamo conto che esiste un diffuso senso di solitudine se non di abbandono nel mondo ebraico. Gli ebrei della diaspora si sentono trascurati da chi reputavano amico e non ha avuto un cenno di solidarietà dopo il 7 ottobre. Per Israele la sensazione è amplificata e vale sia a livello individuale sia a livello di relazioni internazionali: «I nemici dell’Occidente nella regione non temono più gli Usa, che sono lontani, ma non ci si può aspettare che un paese piccolo come Israele affronti l’Iran sostenuto da Russia e Cina. È un lavoro da superpotenze, ma la superpotenza americana ‘è in pausa pranzo’».

Gli ostaggi e i valori al governo
Matti, ci piace sperare che nel momento in cui questo giornale sarà distributo e sfogliato, gli ostaggi possano essere tutti liberi: ma come si contemperano le ragioni di chi vuole smantellare Hamas e di chi, genitore straziato, chiede un accordo a tutti costi con l’organizzazione terrorista pur di riportare a casa il proprio figlio? «È un dilemma terribile per chi guida il paese: il caso di Gilad Shalit è ben presente a tutti. Per riportarlo a casa furono liberati oltre mille detenuti fra i quali lo stesso Yahya Sinwar, l’ideatore del 7 ottobre. A prendere quella decisione fu Netanyahu. Oggi l’apparato di sicurezza sostiene che un accordo sarebbe stato possibile mesi fa: di certo è più facile esercitare pressioni su Israele e far scendere gli israeliani in piazza contro il governo. Noi israeliani discutiamo tra di noi senza neppure avere la certezza di cosa l’altra parte voglia davvero. E però penso che un governo un po’ più raffinato sarebbe riuscito a portare più ostaggi a casa al tempo del primo scambio (lo scorso novembre, ndr), quando c’era una finestra di opportunità».
Per lo scrittore il problema è soprattutto politico perché, spiega, «al governo ci sono degli elementi estremisti di destra che minacciano Netanyahu di uscire dalla maggioranza se fermerà la guerra per riavere gli ostaggi. All’inizio del conflitto Benny Gantz si era unito al governo e dall’opposizione anche Yair Lapid si era detto pronto a entrare nella maggioranza a condizione che ne uscissero i kahanisti. Ma Netanyahu non ha accettato». Un errore strategico per l’autore, secondo cui in una fase drammatica come quella scatenata dal 7 ottobre Israele avrebbe bisogno di un governo «più solido, più responsabile, capace di parlare all’Occidente, con Gantz alla Difesa e Lapid agli Esteri: una coalizione vasta per tenersi gli alleati più vicino e per tenere il paese più unito: ma questo non è stato fatto».
Al contrario, argomenta, Bibi ha evitato il rischio politico andando in guerra con un governo «basato su una maggioranza risicata e ministri molto impopolari». “Ministri del caos”, li chiama Friedman, dei quali lo stesso premier non si fida anche se li ha scelti lui. Matti non le manda a dire: «Ci troviamo nel momento più buio della storia israeliana con il peggior governo di sempre. E se il governo non fosse così tremendo», afferma ancora lo scrittore, «credo che ci sarebbero meno proteste riguardo agli ostaggi». Perché? «Perché se ci fosse un’ampia coalizione sionista gli israeliani guarderebbero ai ministri, Netanyahu incluso, dicendo: siamo convinti che si stiano muovendo bene, ci sentiamo rappresentati, ci fidiamo. Se senti che i tuoi valori sono presenti nella stanza quando viene presa la decisione, è meno probabile che tu scenda in piazza a protestare. Le proteste credo siano più un’espressione di sfiducia nei riguardi del governo che non la richiesta che quella specifica condizione negoziale venga accettata ».
La condanna di Friedman nei confronti dell’ala radicale del sesto gabinetto Netanyahu non potrebbe essere più ferma: «Queste persone hanno un’agenda messianica diversa dal più comune senso di progresso. Ed è triste notare anche che gli ostaggi non sono parte del loro elettorato: perché il 7 ottobre ha colpito soprattutto la sinistra». È vero che i residenti dei kibbutz più prossimi a Gaza erano e sono a grande maggioranza laici e progressisti. «Io credo che se fra i rapiti ci fossero stati un centinaio di ragazzi e ragazze degli insediamenti (in Giudea e Samaria, ndr) l’atteggiamento della destra religiosa sarebbe stato molto diverso».

Le riforme: la giustizia e la leva
Anche la spaccatura verticale che si è vista in Israele prima del 7 ottobre sulla riforma del sistema giudiziario è per Friedman «frutto della natura del governo». Cosa vuoi dire? «Che un esecutivo diverso riuscirebbe probabilmente a dare seguito a parte della riforma giudiziaria, senza controversie; di nuovo, il problema nasce perché ad avanzare le riforme è il governo più estremista e incompetente mai visto. I cittadini liberal non possono sopportare la presenza di ministri come Itamar Ben-Gvir che hanno visto con favore l’assassinio di Yitzhak Rabin o il massacro di Hebron commesso da Baruch Goldstein. Ma Netanyahu ha deciso che la propria sopravvivenza politica ha la precedenza sui veri bisogni del paese».
E le esenzioni per i haredim? «L’esenzione dal militare in generale è un punto debole del sistema: se la leva è obbligatoria lo deve essere per tutti. Ovviamente finché la situazione è tranquilla il problema può essere nascosto sotto al tappeto. Ma oggi abbiamo centinaia di caduti, persone che hanno già fatto tre turni di richiamo sotto le armi, lontani da casa per mesi, con le famiglie messe a dura prova. Allo stesso tempo al governo ci sono ministri che non fanno il militare e i cui elettori non fanno il militare: è un problema che va risolto». Matti non crede alla possibilità della riforma graduale con la lenta crescita del numero degli haredim (i “timorati”) coscritti.
«Non in tempo di guerra. Serve una soluzione forte: una campagna elettorale in cui qualcuno dica: ‘Vuoi continuare a votare in questo paese? Devi fare il militare! Vuoi essere cittadino? Assolvi i tuoi doveri di cittadino!’». Questo, sottolinea, vale per tutti quelli che non servono sotto le armi: haredim e laici. «E credo che qualunque politico usi questa piattaforma avrà molto successo alle prossime elezioni. Ognuno è libero di vivere qua: ma se vuoi partecipare al processo politico e prendere decisioni sulla vita e la morte devi assumerti le tue responsabilità: che in un paese in guerra ci siano ministri esentati dalla leva e i cui figli sono esentati dalla leva, per me è follia. Nel paese c’è una rabbia diffusa e non credo che sia il tempo delle mezze misure».
Come vedi il rapporto con i vicini? «Ci sono tanti bambini a Gaza vittime di una guerra che non hanno voluto. Purtroppo continua la lunga tradizione di scelte sbagliate da parte della leadership palestinese. Dispiace constatare che non hanno ancora messo nel cassetto il sogno di distruggere Israele. Per noi israeliani è piuttosto chiaro: il nazionalismo palestinese non punta alla creazione di uno stato per loro ma alla distruzione del nostro. E quando cediamo territorio questo viene usato per muoverci guerra. E non lo dico per un precocetto ideologico ma perché è quello che osservo da quando ho l’età della ragione». Matti aspetta le prossime elezioni: «I sogni della sinistra sono andati in frantumi, il Likud si è rivelato un pessimo partito, della destra estrema non ne parliamo e gli haredim pensano solo ai haredim». Ragion per cui arriverà un cambiamento.

L’Occidente che non vuol vedere
State combattendo per Israele o per l’Occidente? «Noi combattiamo per la nostra salvezza: è l’Occidente che è ben determinato a non riconoscere come il 7 ottobre e l’11 settembre, Londra e Madrid e il Bataclan, il lungomare di Nizza e il concerto di Ariana Grande siano la stessa battaglia. Se Israele perderà sentiremo gli effetti fino a Roma, Londra, Parigi. Ma non perderemo, siamo resistenti, Tel Aviv pullula di vita. L’altro giorno è arrivato un missile dallo Yemen; abbiamo sentito gli intercettori levarsi in volo e poi un grande boom!, eppure per il resto del giorno il paese era del tutto normale e le scuole non sono neppure state chiuse. Siamo un popolo coriaceo: chi si aspetta che scappiamo urlando si sbaglia di grosso. E se vediamo dove siamo arrivati dal 1948 c’è molto da essere ottimisti. Con la leadership giusta possiamo fare miracoli».

Daniel Mosseri