SUCCOT – Il 7 ottobre e la precarietà della vita
La succah, la capanna che si costruisce per la festa di Succot, è sia un rifugio sia un simbolo di precarietà. Ricorda le capanne costruite dal popolo ebraico mentre vagava nel deserto in attesa di raggiungere la terra promessa. «La succah è come una casa temporanea. È un rifugio, un luogo dove le persone si riuniscono, condividono pasti e il calore della famiglia. Ci ricorda che, anche nei momenti più difficili, abbiamo sempre un posto di conforto e sostegno», sottolinea a Maariv Zion Ben Hanan, capo della sicurezza del villaggio di Ibim, nel sud d’Israele. Dopo il 7 ottobre la sua succa, come molte costruite nell’area vicina alla Striscia di Gaza, è rimasta abbandonata. Un simbolo involontario della rottura della felicità di un paese intero. «Alcune capanne realizzate per la festa sono crollate con il passare dell’inverno, altre sono rimaste in piedi, ma sono ormai degli scheletri», racconta Ben Hanan. Lui il 7 ottobre ha combattuto contro i terroristi di Hamas. «Nonostante i nostri sforzi, non siamo riusciti a salvare tutti. Abbiamo però aiutato molte famiglie e bambini», ricorda. Da allora i media israeliani hanno raccontato diverse volte la storia di Ben Hanan per il suo impegno a parlare pubblicamente del disturbo da stress post-traumatico di cui soffre da un anno. «È un altro esempio della precarietà delle nostre vite», ha raccontato all’emittente Kan.
Nelle sue parole su Succot, Ben Hanan richiama la lezione del rabbino inglese Jonathan Sacks riguardo alla festa. «È il momento in cui ci poniamo la domanda più profonda su cosa renda una vita degna di essere vissuta», spiegava Sacks, scomparso nel 2020. «Ciò che conta non è quanto a lungo viviamo, ma quanto intensamente sentiamo che la vita è un dono che ripaghiamo donando agli altri. La gioia, il tema predominante della festa, è ciò che proviamo quando sappiamo che è un privilegio semplicemente essere vivi».
(Nell’immagine una succa costruita a Nir Oz prima del 7 ottobre)