CINEMA – “Liliana” di Gabbai, la donna prima della senatrice

Rimuovere il contorno di retorica attorno a Liliana Segre. Cercare di sottrarla al tentativo «molto italiano» di trasformarla in un simbolo. Farla parlare oggi, per restituire al pubblico un ritratto fedele della sua storia e della sua visione del mondo. Si intitola Liliana il documentario del regista milanese Ruggero Gabbai dedicato alla senatrice a vita e testimone della Shoah che sarà presentato alla Festa del Cinema di Roma il prossimo 20 ottobre. «È un racconto biografico, una storia di famiglia, ma è anche la ricostruzione della sua evoluzione in un personaggio pubblico conosciuto in tutto il paese», spiega a Pagine Ebraiche Gabbai. «Uno dei miei obiettivi era rimuovere molta della simbologia costruita nel corso del tempo attorno a Liliana. In Italia abbiamo questo vizio di trasformare alcune figure, soprattutto se donne, in figure di culto. Io ho cercato di tornare al contenuto, alle parole, al racconto. Se vogliamo, è una visione molto ebraica».
Il progetto prende spunto dall’esperienza del film Memoria, girato da Gabbai nel 1996 con gli storici Marcello Pezzetti e Liliana Segre. Nel lungometraggio di allora Segre era una dei 93 ebrei italiani sopravvissuti alla Shoah a portare la sua testimonianza. «Ma non era la figura centrale. La intervistò Picciotto e molto del suo racconto di allora è rimasto inedito». Un patrimonio custodito dalla Fondazione Cdec e da cui Gabbai ha attinto per il suo Liliana, prodotto da Forma International in collaborazione con Rai Cinema. «Il modo di raccontare di Segre non è cambiato molto da allora. Ha sempre una grandissima padronanza del linguaggio, una capacità unica di scegliere le parole coi tempi giusti scandite con grande lucidità. Ascoltandola sembra quasi di leggere un libro; è precisa nel descrivere la sua vita, i suoi luoghi, la persecuzione, Auschwitz. Come l’effetto di un libro di Primo Levi o di Elie Wiesel: ti raccontano il mondo e la Shoah senza retorica, togliendo tutto quello che non è essenziale».

Una voce libera e disincantata
Nel raffronto tra la testimonianza di trent’anni fa e quella odierna, Gabbai rileva come si percepisca una evoluzione. «Si sente il cammino che ha fatto come donna e come testimone. C’è la consapevolezza di essere diventata un personaggio pubblico e allo stesso tempo la scelta di mantenere la propria libertà così come la curiosità per le piccole cose. Come dice di sé con ironia nel documentario, lei è una gallina da cortile, non un’aquila reale». Alla consapevolezza si aggiunge, secondo lo storico Marcello Pezzetti, un maggiore «disincanto nei confronti della società, del mondo, del suo vedere Auschwitz e la memoria. È un disincanto che quasi la estranea da tutto e la fa diventare sempre più un punto di riferimento. In più dà molto fastidio a chi invece vuole banalizzare le sue parole anche su temi attuali come Israele. La si contesta e punisce per la lucidità di arrivare dritta ai problemi», sottolinea Pezzetti. Una visione, aggiunge lo storico, «che Gabbai è riuscito a restituire molto bene».
Il rapporto costruito nel corso del tempo tra il regista e Segre è stato fondamentale nella realizzazione di questo film. «Si è fidata ed è stata di una generosità incredibile. Abbiamo dialogato molto nel corso delle riprese e cercato di metterla sempre a suo agio. Insieme abbiamo deciso di iniziare a girare da Pesaro nel settembre 2023». La città marchigiana è il luogo di origine dei nonni materni di Segre e del marito, Alfredo Belli Paci. «Ci torna ogni estate e ci sembrava coerente iniziare da qui, il luogo della sua rinascita dopo Auschwitz». Una parte del racconto è girato sulla spiaggia di Pesaro, un’altra nella sinagoga della città, che da tempo ha perso la sua funzione cultuale. «La sinagoga in parte richiama il rapporto di Segre con la sua identità ebraica. Un’identità che si è evoluta nel tempo e rafforzata dopo la decisione di raccontare pubblicamente la sua storia, su spinta dell’amica Goti Herskovits Bauer, anche lei sopravvissuta ad Auschwitz».

La luce sulla seconda generazione
Nel documentario diverse voci da Mario Monti a Ferruccio De Bortoli, dai carabinieri della scorta a Fabio Fazio e Geppi Cucciari intervengono per dare un proprio ritratto di Segre. «Ci servivano per raccontare l’evolversi della sua immagine pubblica». Ma per Gabbai uno degli elementi più importanti è il rapporto con i figli Alberto, Luciano e Federica, a lungo rimasti all’oscuro del passato di sopravvissuta della madre. «Penso sia la prima volta in Italia che un film accende la luce sul rapporto delle seconde generazioni con il trauma dei genitori e su come venga trasmesso questo dolore». Per la prima volta inoltre, sottolinea il regista, «a parlare davanti alle telecamere è stata la figlia Federica. Ha raccontato di come a 13 anni, la stessa età in cui Liliana è stata deportata ad Auschwitz, la madre le abbia letto alcune pagine dei suoi diari. Federica parla molto bene: spiega che per la madre sicuramente è stato molto terapeutico, mentre per lei è stata una grande sofferenza. Non è un’accusa, ma solo un dato di fatto. E sottolinea come da allora sente di aver raccolto in mano il testimone».
Un momento emozionante e sorprendente, afferma il regista. «Questo documentario è molto una storia di famiglia, è il racconto di Liliana madre e nonna, non solo di testimone».
Per Pezzetti «Liliana raccoglie il messaggio complessivo di Segre: una donna intelligente, che nella vita ha superato tutto, mantenendo salda la sua libertà e i suoi affetti».

Daniel Reichel