LIBRI – La provocazione di Freud spiegata da Yosef H. Yerushalmi
È nel 1934 che, poco prima di morire (aveva ormai 78 anni), Freud scrisse il suo celebre e controverso libro L’uomo Mosè e la religione monoteista. Era l’“ora più buia” per gli ebrei di Europa, che – e Freud ne era ben consapevole e angosciato – stretti nella morsa mortale, si avviavano a un atroce destino. Ed è proprio in questo momento terribile che il pensatore viennese offre un testo dal contenuto crudamente urticante, con il quale, proprio quando il suo popolo era sul punto di perdere tutto, anche la vita, levava ad esso anche quello in cui aveva sempre creduto, ossia che il suo cammino fosse iniziato grazie alla forza e alla visione dell’ebreo più grande di tutti i tempi, che avrebbe trasformato una comunità di schiavi in una nazione di uomini liberi.
Quell’ “ebreo più grande di tutti i tempi”, in realtà, non sarebbe mai esistito. Mosè era un principe o sacerdote egizio, e il monoteismo era già stato creato dal faraone Amenofi IV, creatore di una sorte di “eresia” fondata sul culto esclusivo del dio del sole Aton, che Mosè avrebbe ripreso e fatto accettare da una tribù semitica che viveva in Egitto, liberandola dalla schiavitù e creando una nuova nazione. Tra gli innumerevoli commenti al “Mosè” di Freud, uno dei più profondi e originali è certamente quello di Yoseph Hayim Yerushalmi Il Mosè di Freud. Giudaismo terminabile e interminabile (Freud’s Moses: Judaism Terminable and Interminable), apparso per la prima volta, in lingua inglese nel 1990 e riedito nel 1993. Degna di segnalazione, pertanto, la pubblicazione della nuova edizione italiana del libro, tradotto in italiano da Gaspare Bona, da parte della Giuntina, nella Collana “Schulim Vogelmann”.
L’autore, com’è noto, è stato uno storico ebreo americano di alta fama, conosciuto soprattutto per i suoi studi, di grande spessore e profondità, sulle tradizioni e la cultura del mondo sefardita. Non è stato un esperto di Freud o di psicanalisi, ed egli stesso ammette che questo suo impegno di ricerca sul “Mosè” di Freud rappresenta una sorta di escursione extra moenia rispetto ai suoi tradizionali campi di indagine: «Ci si potrebbe stupire – scrive – che un libro sull’‘Uomo Mosè e la religione monoteista’ sia scritto da uno storico noto finora come studioso degli ebrei sefarditi ». I lettori, immagina lo studioso, potrebbero quindi essere interessati a sapere come sia nato questo libro, e cerca di fornire una risposta, che appare molto “freudiana”: «Sicuramente esiste un groviglio di motivi inconsci, dei quali io stesso ho solo una nozione confusa, ma che potrebbero dipendere da una questione esistenziale, cioè dal fatto che sono stato figlio di un padre e sono a mia volta padre di un figlio ».
Nel volume ci viene ricordato che Freud era ben consapevole della profonda ferita che si accingeva a portare, e che fu scongiurato di non pubblicare il libro, in quei tempi terribili. Ammise, in una lettera al figlio Ernst, che immaginava che «gli ebrei si sarebbero molto offesi», ma che non poteva «subordinare la verità a presunti interessi nazionali». La dolorosa impresa andava comunque realizzata.
Il libro rappresenta, fondamentalmente, un’interpretazione storica di questa ferita, di questa offesa, e anche, in una certa misura, una sorta di difesa della “spietata” scelta di Freud; o, almeno, un tentativo di capirne le ragioni, inquadrandola nella particolare storia personale del pensatore viennese.
Diciamo subito che, come libro di storia, quello di Freud non vale assolutamente niente. Neanche il più sciatto dei professori lo approverebbe non dico come tesi di laurea, ma neanche come tesina sperimentale di primo anno di corso. Ma ciò non è certo una novità per gli scritti dello scienziato, il quale non ha mai mostrato il benché minimo interesse per la documentazione storiografica, la ricerca delle fonti, la loro analisi ecc. Tutte cose che dovevano apparirgli, evidentemente, del tutto inutili e noiose. Freud le idee le inventava, e basta. Le sue verità non dovevano trovare altro fondamento che nella sua autoreferenziale invenzione. Ma Yerushalmi non intende rivalutare lo scienziato come storico (impresa oggettivamente impossibile), ma cogliere il senso del suo libro come cartina di tornasole della sua invenzione della psicanalisi. Giunto alla fine della sua vita, secondo Yerushalmi, Freud avrebbe avvertito il desiderio di avvicinarsi alla sua “radice” ebraica, che egli, a modo suo, non aveva mai rinnegato. L’anziano scienziato, perciò, privatamente (potremmo dire, quasi segretamente) si avvicina alla Bibbia. «L’integrazione freudiana della personalità ha bisogno del ritorno del rimosso per una migliore comprensione di sé stessi; successivamente il paziente non deve rinnegare il padre ma cercare di ristabilire un rapporto su un piano diverso».
Ecco, così, che, in limine mortis, e solo allora, la psicanalisi di Freud, nota Yerushalmi, «diventa ebraica». Secondo l’autore, ciò rappresenterebbe un riavvicinamento alle sue radici familiari, che il padre Yakob avrebbe verosimilmente apprezzato. Possiamo condividere questa interpretazione? In fin dei conti, ogni padre, anche dopo la morte, riaccoglierebbe il figlio, qualsiasi figlio, a braccia aperte. Ma fu davvero un “ritorno”? Freud non l’ha mai detto, e quindi penso che non tocchi neanche a noi dirlo. A mio modesto avviso, la psicanalisi non guadagna alcun titolo di nobiltà a essere classificata come una “scienza ebraica”, cosa che non è (a parte il fatto che le scienze, almeno loro, per fortuna, non hanno passaporto). E soprattutto, il grande scienziato non riceve alcuna personale gloria dalla scrittura della sua ultima opera, che, più che nociva o distruttiva, resta soprattutto un lavoro privo di alcun fondamento scientifico.
L’interpretazione di Yerushalmi, volta a scorgere il segno, in tale discussa opera, di una sorta di “ritorno a casa” dello scienziato (che, con essa, non solo si sarebbe riavvicinato personalmente all’ebraismo, ma avrebbe anche “ebraicizzato” la “sua” scienza, la psicanalisi) è certamente suggestiva, e fa riflettere. Anche, se, francamente, non riesce a convincere.
Francesco Lucrezi
(Nell’immagine: Abu Simbel, un dettaglio del Grande Tempio di Ramses II, considerato il faraone regnante al tempo di Mosè © Dave Primov)