SCAFFALE – Ebrei e diritto: Mazzamuto illustra i grandi del Novecento
Il diritto ebraico, nelle sue radici bibliche e nella sua secolare evoluzione, com’è noto, ha sempre conservato una matrice prettamente religiosa, dal momento che a fondamento dell’halachah c’è sempre la volontà divina. E la stessa religione ebraica ha una natura intrinsecamente giuridica – molto più di quanto non si possa dire, per esempio, del cristianesimo –, in considerazione della centralità che, in essa, assume l’idea non tanto dell’osservanza della parola di Dio, quanto, soprattutto, della sua libera, cosciente e responsabile interpretazione, attività umana in continua e inarrestabile trasformazione, refrattaria a qualsiasi limitazione e costrizione dogmatica.
Tale peculiare legame genetico tra ebraismo e diritto ha permesso al popolo ebraico, nei secoli, di sviluppare una speculazione teorica di mirabile livello sapienziale, rimasta a lungo quasi esclusivamente interna agli ambienti rabbinici, e ancora in larga parte sconosciuta al di fuori di questi. Una vera riserva aurea alla quale la scienza giuridica contemporanea, posta in crisi dal vacillare di millenarie categorie di riferimento – basti pensare ai concetti di ‘persona’, ‘soggetto’, ‘interesse’, ‘responsabilità’ -, potrebbe e dovrebbe guardare con maggiore attenzione, alla ricerca di possibili nuovi punti di riferimento.
La progressiva cd. “emancipazione” ebraica, nell’Ottocento, ha in parte superato tale chiusura, portando molti giuristi ebrei – segnatamente nel nostro Paese – a dare un rilevante contributo alla rinascita del diritto civile e ai processi codificatori nell’Italia unitaria. Un fenomeno che si è ulteriormente sviluppato nel Novecento: secolo, com’è noto, segnato, tra le tante tragedie, anche da una vera e propria eclissi dello stesso diritto, piegato – con l’attiva complicità di molti giuristi, anche di chiara fama – ai tetri interessi di regimi totalitari e oscurantisti.
Nel volume – di grande interesse storico – Giuristi italiani del Novecento (Jovene Editore, Napoli, pp. 305, euro 38), Salvatore Mazzamuto ricostruisce in modo mirabile il poderoso apporto dato alla scienza giuridica italiana (nei suoi vari settori: il diritto privato, commerciale, amministrativo, finanziario, internazionale, la storia e la filosofia del diritto e altri ancora) da giuristi ebrei quali, solo per fare qualcuno tra i nomi più noti, Alessandro Graziani, Giuseppe Ignazio Luzzatto, Vittorio Polacco, Giovanni Pugliese, Mario Sarfatti, Guido Tedeschi, Edoardo Volterra e tanti altri e i loro variegati e controversi rapporti con i colleghi gentili di orientamento cattolico, liberale o marxista. Rapporti segnati, negli anni bui del fascismo, da molti atti di cinismo, abbandono e tradimento, ma anche da rapporti umani e scientifici molto intensi e fecondi, che hanno lasciato tracce importanti e significative.
Particolarmente stimolante si rivela la scelta dell’autore, tra i massimi civilisti contemporanei, noto, tra l’altro, per il suo costante interesse per la cultura ebraica, di impostare alcuni capitoli del suo libro in forma di confronto tra alcune coppie di grandi Maestri, di diversa estrazione, il cui dialogo – personale e dottrinario –, contestualizzato nel periodo storico di riferimento, viene ricostruito in pagine di notevole lucidità e profondità, interessanti non solo per i cultori di diritto, ma anche per chiunque voglia approfondire il complesso processo di costruzione della coscienza civile del nostro Paese nel secolo scorso, negli anni giolittiani, poi della Grande Guerra e della dittatura fascista, fino ai decenni della democrazia costituzionale. Vediamo così accostate le figure di Carlo Francesco Gabba e Amram Lodovico Mortara, poi di Tullio Ascarelli e Piero Calamandrei e dello stesso Ascarelli e Alberto Asquini. Altri capitoli sono focalizzati invece sulle personalità di singoli studiosi, tra i quali, ai fini del nostro discorso, spicca la figura del grande Moisè Raffael Vittorio Polacco.
Non è ovviamente possibile, in queste poche righe, rendere conto della ricchezza della ricerca di Mazzamuto, dalla quale emergono molteplici importanti spunti di riflessione. Egli ci pone davanti a pagine vergognose della storia della cultura italiana, come quelle segnate dalla famigerata rivista La difesa della razza, che si impegnò, tra l’altro, a esporre al pubblico ludibrio diversi giuristi ebrei. Questi non erano fatti oggetto di disprezzo solo per l’appartenenza alla razza inferiore, ma anche per le loro idee perverse e degenerate: il “giudeo Mortara”, per esempio, era accusato di avere fatto approvare l’amnistia ai disertori di guerra, e “l’ebreo Polacco” di aver promosso una meno rigida disciplina delle naturalizzazioni, rivolta a fare dell’Italia “una succursale delle comunità israelitiche di Polonia e di Romania”. Ma vanno anche ricordate le pagine violentemente antisemite della rivista dei gesuiti La civiltà cattolica, o quelle della testata Il diritto razzista, del cui Comitato scientifico accettarono di fare parte anche intellettuali di alta levatura, come il famoso Santi Romano. E il direttore, Stefano Maria Cutelli, lamentando la mancata adesione di altri Professori, ne denunciò l’evidente viltà.
Ma il libro dà modo di riflettere anche su altri aspetti della vita culturale di quegli anni. Il sionismo, per esempio, fu non solo demonizzato da giuristi cattolici (Gabba lo definì una «mostruosità concettuale e politica»), ma anche da non pochi giuristi ebrei, i quali, impegnati nello sforzo di dimostrare la propria piena “italianità”, e di allontanare ogni sospetto di “doppia fedeltà”, si dimostrarono fortemente ostili all’idea sionista. Tale avversione si manifestò a volte in modi particolarmente aspri: basti pensare al violento pamphlet di Mortara, contro Theodor Herzl e la sua idea, intitolato Il nuovo regno di Giuda.
Non si può non chiudere questa breve nota con una considerazione di grande tristezza. L’eccellente libro di Mazzamuto, che ci insegna tanto sulla storia d’Italia (paese, per tanti aspetti, meritatamente definito, da molti, “patria del diritto”) è una raccolta di saggi, pubblicati in varie occasioni, e in tempi diversi. Anche nei pochi decenni in cui il percorso di ricerca dell’autore su questi temi si è andato sviluppando la storia d’Italia è cambiata; purtroppo, molto in negativo. E, da questo punto di vista, non solo le pagine di Mazzamuto ci parlano di storia, ma si pongono anch’esse come oggetto di una valutazione storica. Una valutazione che sollecita sentimenti di grande sconforto. È quel che viene in mente leggendo le considerazioni dell’autore nel saggio su Gabba e Mortara, pubblicato la prima volta nel 1992: «Quanto al male endemico del pregiudizio antisemita – allontanatosi grazie al processo di pace l’ultimo fomite di antisionismo ossia il conflitto arabo israeliano… – il nostro Paese sembra soffrirne al di sotto di quel livello di guardia che solo potrebbe rendere concreto il pericolo del riaprirsi di una questione ebraica».
Parole giuste e condivisibili nel momento in cui furono scritte, ma travolte da quel che è accaduto a partire dal 2000 e, soprattutto, dal 2023. Il “livello di guardia” è stato nuovamente, ampiamente superato, il pericolo è tornato, più concreto che mai, l’antica “questione ebraica” si è riaperta nel più doloroso dei modi.
Tale peculiare legame genetico tra ebraismo e diritto ha permesso al popolo ebraico, nei secoli, di sviluppare una speculazione teorica di mirabile livello sapienziale, rimasta a lungo quasi esclusivamente interna agli ambienti rabbinici, e ancora in larga parte sconosciuta al di fuori di questi. Una vera riserva aurea alla quale la scienza giuridica contemporanea, posta in crisi dal vacillare di millenarie categorie di riferimento – basti pensare ai concetti di ‘persona’, ‘soggetto’, ‘interesse’, ‘responsabilità’ -, potrebbe e dovrebbe guardare con maggiore attenzione, alla ricerca di possibili nuovi punti di riferimento.
La progressiva cd. “emancipazione” ebraica, nell’Ottocento, ha in parte superato tale chiusura, portando molti giuristi ebrei – segnatamente nel nostro Paese – a dare un rilevante contributo alla rinascita del diritto civile e ai processi codificatori nell’Italia unitaria. Un fenomeno che si è ulteriormente sviluppato nel Novecento: secolo, com’è noto, segnato, tra le tante tragedie, anche da una vera e propria eclissi dello stesso diritto, piegato – con l’attiva complicità di molti giuristi, anche di chiara fama – ai tetri interessi di regimi totalitari e oscurantisti.
Nel volume – di grande interesse storico – Giuristi italiani del Novecento (Jovene Editore, Napoli, pp. 305, euro 38), Salvatore Mazzamuto ricostruisce in modo mirabile il poderoso apporto dato alla scienza giuridica italiana (nei suoi vari settori: il diritto privato, commerciale, amministrativo, finanziario, internazionale, la storia e la filosofia del diritto e altri ancora) da giuristi ebrei quali, solo per fare qualcuno tra i nomi più noti, Alessandro Graziani, Giuseppe Ignazio Luzzatto, Vittorio Polacco, Giovanni Pugliese, Mario Sarfatti, Guido Tedeschi, Edoardo Volterra e tanti altri e i loro variegati e controversi rapporti con i colleghi gentili di orientamento cattolico, liberale o marxista. Rapporti segnati, negli anni bui del fascismo, da molti atti di cinismo, abbandono e tradimento, ma anche da rapporti umani e scientifici molto intensi e fecondi, che hanno lasciato tracce importanti e significative.
Particolarmente stimolante si rivela la scelta dell’autore, tra i massimi civilisti contemporanei, noto, tra l’altro, per il suo costante interesse per la cultura ebraica, di impostare alcuni capitoli del suo libro in forma di confronto tra alcune coppie di grandi Maestri, di diversa estrazione, il cui dialogo – personale e dottrinario –, contestualizzato nel periodo storico di riferimento, viene ricostruito in pagine di notevole lucidità e profondità, interessanti non solo per i cultori di diritto, ma anche per chiunque voglia approfondire il complesso processo di costruzione della coscienza civile del nostro Paese nel secolo scorso, negli anni giolittiani, poi della Grande Guerra e della dittatura fascista, fino ai decenni della democrazia costituzionale. Vediamo così accostate le figure di Carlo Francesco Gabba e Amram Lodovico Mortara, poi di Tullio Ascarelli e Piero Calamandrei e dello stesso Ascarelli e Alberto Asquini. Altri capitoli sono focalizzati invece sulle personalità di singoli studiosi, tra i quali, ai fini del nostro discorso, spicca la figura del grande Moisè Raffael Vittorio Polacco.
Non è ovviamente possibile, in queste poche righe, rendere conto della ricchezza della ricerca di Mazzamuto, dalla quale emergono molteplici importanti spunti di riflessione. Egli ci pone davanti a pagine vergognose della storia della cultura italiana, come quelle segnate dalla famigerata rivista La difesa della razza, che si impegnò, tra l’altro, a esporre al pubblico ludibrio diversi giuristi ebrei. Questi non erano fatti oggetto di disprezzo solo per l’appartenenza alla razza inferiore, ma anche per le loro idee perverse e degenerate: il “giudeo Mortara”, per esempio, era accusato di avere fatto approvare l’amnistia ai disertori di guerra, e “l’ebreo Polacco” di aver promosso una meno rigida disciplina delle naturalizzazioni, rivolta a fare dell’Italia “una succursale delle comunità israelitiche di Polonia e di Romania”. Ma vanno anche ricordate le pagine violentemente antisemite della rivista dei gesuiti La civiltà cattolica, o quelle della testata Il diritto razzista, del cui Comitato scientifico accettarono di fare parte anche intellettuali di alta levatura, come il famoso Santi Romano. E il direttore, Stefano Maria Cutelli, lamentando la mancata adesione di altri Professori, ne denunciò l’evidente viltà.
Ma il libro dà modo di riflettere anche su altri aspetti della vita culturale di quegli anni. Il sionismo, per esempio, fu non solo demonizzato da giuristi cattolici (Gabba lo definì una «mostruosità concettuale e politica»), ma anche da non pochi giuristi ebrei, i quali, impegnati nello sforzo di dimostrare la propria piena “italianità”, e di allontanare ogni sospetto di “doppia fedeltà”, si dimostrarono fortemente ostili all’idea sionista. Tale avversione si manifestò a volte in modi particolarmente aspri: basti pensare al violento pamphlet di Mortara, contro Theodor Herzl e la sua idea, intitolato Il nuovo regno di Giuda.
Non si può non chiudere questa breve nota con una considerazione di grande tristezza. L’eccellente libro di Mazzamuto, che ci insegna tanto sulla storia d’Italia (paese, per tanti aspetti, meritatamente definito, da molti, “patria del diritto”) è una raccolta di saggi, pubblicati in varie occasioni, e in tempi diversi. Anche nei pochi decenni in cui il percorso di ricerca dell’autore su questi temi si è andato sviluppando la storia d’Italia è cambiata; purtroppo, molto in negativo. E, da questo punto di vista, non solo le pagine di Mazzamuto ci parlano di storia, ma si pongono anch’esse come oggetto di una valutazione storica. Una valutazione che sollecita sentimenti di grande sconforto. È quel che viene in mente leggendo le considerazioni dell’autore nel saggio su Gabba e Mortara, pubblicato la prima volta nel 1992: «Quanto al male endemico del pregiudizio antisemita – allontanatosi grazie al processo di pace l’ultimo fomite di antisionismo ossia il conflitto arabo israeliano… – il nostro Paese sembra soffrirne al di sotto di quel livello di guardia che solo potrebbe rendere concreto il pericolo del riaprirsi di una questione ebraica».
Parole giuste e condivisibili nel momento in cui furono scritte, ma travolte da quel che è accaduto a partire dal 2000 e, soprattutto, dal 2023. Il “livello di guardia” è stato nuovamente, ampiamente superato, il pericolo è tornato, più concreto che mai, l’antica “questione ebraica” si è riaperta nel più doloroso dei modi.
Francesco Lucrezi