SCAFFALE – I libri della disputa senza le vittime

È ben noto come il processo di consolidamento della nuova religione cristiana, nei decenni immediatamente successivi alla morte di Gesù, così come nel secondo e nel terzo secolo dell’Era Volgare, sia stato molto articolato e complesso, e come il distacco dalla “santa radice” ebraica sia stato segnato da sentimenti contrastanti. Le prime comunità ebraiche che aderirono alle parole di Paolo di Tarso non pensavano di abbandonare la fede dei loro Padri, ma solo di dare ad essa una svolta radicale, all’insegnamento del riconoscimento della venuta del Messia (indipendentemente dalla credenza o meno nella sua natura divina). Si crearono così delle comunità di cosiddetto “giudeo-cristiani”, nelle quali non era dato scorgere una differenza tra le due religioni. Ciò durò però piuttosto poco, perché la definitiva accettazione della natura divina di Cristo portò, verso la fine del I secolo, a una separazione che, com’è noto, non si sarebbe mai più superata, né, certamente, mai lo sarà.
Il rapporto di derivazione, comunione e fratellanza, com’è noto, fu sostituito da una diversa relazione, fatta di contrapposizione, avversione, ostilità. E, in tale nuovo spirito polemico, furono scritti diversi libelli cristiani adversus Iudaeos, improntati a toni di forte intolleranza. Ciò era dettato dalle esigenze della cd. “teologia della sostituzione”, secondo cui solo la Chiesa, Verus Israel, avrebbe dovuto prendere il posto del vecchio e menzognero falsus Isrrel, un de cuius che, ostinatamente, si ostinava a non volere morire, come ogni “dante causa” dovrebbe fare. Ma era imposto anche, soprattutto nei primi tempi, dall’esigenza di rimarcare la peculiarità della nuova religione, che non doveva essere confusa – come spesso avveniva – con la vecchia fede mosaica.
Questa letteratura cristiana contra Iudaeos è stata molto studiata, ed è molto conosciuta. Ed è motivo di grande sconforto vedere che alcune delle più velenose malignità da essa propagate (quale l’idea del vecchio Dio vendicativo – quello dell’“occhio per occhio dente per dente”, frase continuamente citata, nell’assoluta ignoranza del suo vero significato – sostituito dal nuovo Dio buono e misericordioso e cose del genere) tornino oggi in auge anche tra uomini di Chiesa di alto livello.
Molto meno conosciuta e studiata, invece, è la letteratura polemica anticristiana che fu scritta, in diverse epoche e località, in ambienti ebraici. I motivi di tale scarsa considerazione sono molteplici. Innanzitutto, tali testi furono, quantitativamente, molto inferiori a quelli antiebraici, ed ebbero una circolazione infinitamente più ridotta, limitata a ristretti segmenti di alcune comunità giudaiche. Per gli ebrei della diaspora, emarginati, vessati e perseguitati, sarebbe ovviamente stato un suicidio diffondere tra i gentili libelli di denigrazione del cristianesimo, che avrebbero inevitabilmente accresciuto l’ostilità verso di loro. E tanto più pericoloso sarebbe naturalmente stato attaccare direttamente la persona di Gesù.
Va salutato perciò come un contributo storico di alto valore il volume di Miriam Benfatto intitolato Gesù e la polemica ebraica. Un’antologia (secoli XII-XIV) (Carocci editore, 2024, pp. 117, euro 14), dedicato a quella che l’autrice definisce sifrut ha-vikkuah, letteralmente “letteratura della disputa”, o “della controversia”. Tale espressione viene adoperata per indicare l’intento polemico anticristiano dei redattori delle opere studiate, anche se, chiarisce l’autrice, essa viene usata “per esemplificare i diversi atteggiamenti critici, di matrice ebraica, nei confronti del cristianesimo, sia diretti sia indiretti”. Spesso non si tratta di testi meramente polemici, ma anche appartenenti al genere apologetico: è difficile infatti, spiega la Benfatto, marcare una distinzione semantica tra apologetica, intesa come difesa, e polemica, intesa come attacco, a causa del grado di inestricabile connessione dei due aspetti nei testi citati.
Oggetto specifico dell’analisi dell’autrice sono gli scritti che prendono di mira proprio la figura di Gesù, attaccato in ragione della sua falsa natura divina, della sua incoerenza, del suo presunto tradimento della tradizione ebraica. I testi prendono a modello, chiaramente, gli scritti cristiani ante Iudaeos, le cui argomentazioni sono capovolte e rovesciate. Non sarebbero gli ebrei a essere in errore, ma i cristiani, e ciò sarebbe da ricondurre proprio alla loro errata considerazione dell’ebreo da loro venerato come figlio di Dio.
Diversamente dalla letteratura polemica antiebraica, che nasce già alla fine del I secolo, quella ebraica ha invece origine medievale, e cresce soprattutto nelle località (segnatamente, alcune zone della Spagna e della Francia) in cui più forte si avvertiva il morso della violenza antisemita.
L’antologia di brani (riprodotti nel testo originale ebraico e nella traduzione italiana) proposta dall’autrice è di alto interesse, e permette di ricostruire in che modo alcuni esponenti della diaspora d’Occidente esprimessero i loro sentimenti verso l’iniziatore di quella comunità cristiana che era per loro, evidentemente, fonte di tanta sofferenza.
I giudizi su Gesù appaiono vari, e anche reciprocamente contraddittori. Oggetto di accusa non pare tanto essere la figura del Nazareno, ma le persone dei suoi seguaci, che ne avrebbero travisato la natura, la missione e le parole. Gesù, infatti, è ammirato per avere preservato l’osservanza delle mitzvòt, che i cristiani avrebbero invece abbandonato. Se Gesù fu circonciso, perché i cristiani non lo fanno? Egli non avrebbe potuto essere una divinità, altrimenti sarebbe stato senza senso il suo invocare, sulla croce, il soccorso divino. Un uomo non può essere Dio, e come può Dio avere paura della morte? La Torah insegna che Dio è uno, e Gesù non può avere smentito tale indiscutibile verità. Come avrebbe potuto Dio “abitare in un utero, nel sudiciume dello stomaco, nel buio e nell’oscurità”? Toccando una prostituta, egli si sarebbe reso impuro come lei. Gesù e gli apostoli avrebbero sbagliato, ma non avrebbero ingannato, non avrebbero cercato di fare sbagliare anche gli altri, mentre sarebbero stati i successivi teologi della Chiesa a fare sbagliare gli altri, ingannandoli. Sono solo degli esempi dei molti argomenti della variegata sifrut ha-vikkuah.
Merito dell’autrice è quello di avere offerto una testimonianza di grande interesse storico su un aspetto poco conosciuto delle idee maturate nella diaspora occidentale del basso Medio Evo. Se un appunto si può fare all’autrice, è quello di non avere adeguatamente investigato sulle condizioni di vita e sulle basi culturali degli autori di tale peculiare filone letterario. Chi erano? A chi si rivolgevano? Quanti lettori hanno raggiunto?
Ignaro di tale materia, mi permetto di fare solo due osservazioni. Questi libelli rappresentano certamente una parte decisamente minoritaria delle comunità ebraiche di Francia e Spagna, e verosimilmente hanno avuto una circolazione molto ridotta. Gli atteggiamenti prevalenti nella maggioranza delle comunità nei confronti del cristianesimo erano certamente altri, improntati a resilienza, umiltà, silenzio, forzato rispetto: posizioni di aperta polemica (quando esistenti) non avrebbero mai potuto essere espresse apertamente.
La seconda è in realtà una domanda, una domanda retorica: quanti cristiani hanno sofferto, o sono stati perseguitati, a causa di questa letteratura? La risposta è molto semplice: nessuno, mai.

Francesco Lucrezi