«L’unico paese arabo che accoglieva gli ebrei dopo il ‘48»
Il Libano, ricorda David (Dodi) Blanga, «era considerato la perla del Medio Oriente. Era un paese dalle mille opportunità e con una comunità ebraica florida». Dopo il 1948, aggiunge Milo Hasbani, «fu l’unico paese arabo in cui gli ebrei aumentarono invece che diminuire. Diventò per molti un rifugio sicuro: ad esempio per la mia famiglia, che lasciò la Siria». Sia Hasbani sia Blanga sono nati a Beirut nel 1948, l’anno della creazione dello Stato d’Israele. Conservano un bel ricordo della loro vita libanese. Hasbani la lasciò a otto anni. Blanga vi rimase fino ai vent’anni e ancora adesso con gli amici dell’Accademia francese di Beirut, ormai sparsi in tutto il mondo, conversa in un misto di arabo e francese, arricchito da qualche parola di giudaico arabo. «Usiamo ad esempio la parola ‘fohed’, che richiama l’ebraico lefahed, avere paura». Quella che da tempo si respira in un Libano stravolto dalle guerre civili, dalla corruzione, dalla crisi economica.
«Fa male vedere il luogo che un tempo chiamavi casa così martoriato», sottolinea Blanga. La sua famiglia lasciò Beirut alla fine degli anni Sessanta, la fabbrica di lavorazione di budello con 140 dipendenti fu chiusa e ricostituita nel milanese. «Per anni abbiamo tenuto rapporti di lavoro con il Libano. E ancora adesso ho qualche legame lì, soprattutto con cristiani o musulmani sunniti. Della comunità ebraica, una delle 18 confessioni riconosciute a livello nazionale, non è rimasto nessuno dei miei conoscenti e oggi conterà al massimo una cinquantina di persone. Tutto è stato portato via, in salvo in Israele, in Francia, negli Stati Uniti».
La rottura tra gli ebrei e il Libano, a differenza di altri paesi, è stata progressiva. Alcuni episodi di antisemitismo segnarono gli anni ‘50 e ‘60. «Ma l’ostilità nei nostri confronti era molto limitata. La mia famiglia ad esempio scelse di andare in Israele per sua volontà, non perché obbligata o perché temeva per la sua sicurezza », racconta Hasbani. Per i Blanga fu diverso, dopo la Guerra dei sei giorni (1967), l’atmosfera si fece più pesante e così il capofamiglia, Fouad, scelse di trasferirsi a Milano, ricongiungendosi con uno dei suoi fratelli. «Il grande sconvolgimento iniziò con la guerra civile nel 1975. Il quartiere ebraico di Wadi Abou Jmil si trovava a cavallo della linea di demarcazione tra Beirut Est e Ovest. Di conseguenza, i blocchi stradali, le barricate, i combattimenti, i bombardamenti e il fuoco dei cecchini resero resero la vita impossibile per la comunità », spiega Hasbani. Il suo ultimo viaggio in Libano risale al 1976. «Una settimana in cui vidi una Beirut distrutta».
Nei primi due anni del lungo conflitto civile libanese, 200 ebrei persero la vita nel fuoco incrociato. A ciò si aggiunsero una sequenza terribile di attacchi mirati, che spinse l’esercito libanese a posizionare dei carri armati all’ingresso di Wadi Abou Jmil. «Improvvisamente, gli ebrei si resero conto della triste realtà: il paradiso libanese si era trasformato in un inferno dove regnava la legge della giungla, con la sua parte di terrore e paura. L’unico modo per sopravvivere era fuggire», ricorda l’analista Karim Rebeiz in un articolo pubblicato a gennaio 2024 da L’Orient-Le Jour, quotidiano francofono libanese. Nell’articolo si pone la parola fine, o quasi, alla storia ebraica nel Paese dei cedri con l’uccisione nel 1982 del neoeletto presidente Bashir Gemayel, il proseguo degli scontri e l’inizio della Prima guerra israelo-libanese. «Dal 1984 in poi, la comunità ebraica divenne il bersaglio preferito dei fanatici islamici. Nel 1984, tre suoi leader furono arrestati e uccisi a colpi di pistola a un posto di blocco», scrive Rebeiz. Altri undici rappresentanti del Consiglio ebraico scomparvero di lì a poco, anche loro, si scoprì in seguito, erano stati assassinati. Non ci fu pietà per nessuno, sottolinea Rebeiz. Anche Elijah Hallak, un ebreo conosciuto come «il medico dei poveri», fu rapito e poi giustiziato. «In Libano con il tempo ‘ebreo’ è diventata una parola molto pesante», scrive nel suo Juifs du Liban (2020) Nagi Georges Zeidan, storico libanese cristiano scomparso nel 2022. «Quelli che sono rimasti tengono segreta la loro identità. Sono spaventati a morte e spesso non dicono nemmeno agli amici che sono ebrei».
Uno dei pochi ancora noti era Isaac Arazi, a lungo presidente del Consiglio comunale ebraico del Libano. È morto nel dicembre 2023 e L’Orient-Le Jour lo ricorda come uno dei principali fautori della ristrutturazione della sinagoga Magen Abraham. Inaugurata nel 1926, fu distrutta durante il conflitto con Israele e poi rimessa in piedi con un progetto di nove anni concluso nel 2009. «Mi piacerebbe un giorno vederla, ma non so se sarà mai possibile» afferma Hasbani, che sottolinea come il paese sia caduto in un baratro, soprattutto a causa di Hezbollah, il gruppo terroristico sostenuto dall’Iran. «Stupisce che anche qui in Italia non si capisca la dinamica della guerra attuale con Israele. Sono i terroristi di Hezbollah che hanno attaccato per primi, in solidarietà con Hamas. Sono un male da estirpare per garantire la sicurezza d’Israele, ma anche per migliorare la vita di milioni di libanesi».
Forse non è un caso, guardando alla situazione del Libano, che Blanga citi come una delle sue memorie più care della vita a Beirut le letture a scuola di Khalil Gibran (1883–1931). Poeta e filosofo, Gibran è noto in particolare per la poesia Pietà per la Nazione scritta un secolo fa. Un lamento e una critica per le condizioni di decadenza morale, politica e sociale di una nazione oppressa dai propri governanti. Il Libano di oggi, come spiegano Blanga e Hasbani.
Daniel Reichel
(Nell’immagine: l’interno della sinagoga Maghen Abraham a Beirut)