ISRAELE – Gli italkim e la tregua: “Un sollievo, ma è molto fragile”

Ci sono emozioni contrastanti tra gli italiani d’Israele, gli italkim, residenti nel nord del paese. Da un lato si tira un sospiro di sollievo per la tregua appena iniziata: due mesi di pausa nella guerra contro Hezbollah. Dall’altro nessuno si fa illusioni sulla fragilità del cessate il fuoco. «Siamo esausti, stremati mentalmente e fisicamente», spiega a Pagine Ebraiche Cesare Funaro, chef del kibbutz Sasa. Da un anno divide la sua vita tra il lavoro e il servizio di sicurezza del kibbutz. «Per metà della giornata sono in divisa da chef, per l’altra metà indosso il giubbotto antiproiettili».
Prima dell’intervista ha svolto un incontro con il team del servizio di sicurezza. «Abbiamo fatto una perlustrazione per tutto il kibbutz per vedere se non ci sono pezzi di missili o altro materiale bellico in giro. C’è una certa euforia per la tregua. Da padre di famiglia non posso che sperare in due mesi di tranquillità e pace». Uno dei suoi tre figli è appena tornato dal Libano in congedo. Il più piccolo invece è ancora in Libano. «Ha passato mesi a Gaza, poi è stato mandato al nord. Il 7 ottobre ha partecipato ai combattimenti al kibbutz Kfar Aza, dove è sopravvissuto per miracolo. Non è una vita facile, né per lui né per noi che lo aspettiamo». La speranza è che questa tregua regga e permetta al figlio e a tutti di rifiatare.

Due mesi per Hezbollah per riarmarsi
«Per la pace purtroppo bisognerà aspettare a lungo», commenta Guido Sasson, residente a Mitspe Netofa, a poca distanza dal lago di Tiberiade. «Non ci si può fidare dell’altra parte e non c’è molta fiducia nemmeno nel nostro governo. Uno dei miei figli è nell’esercito, lui non si pone molte domande, ma dice che in molti dentro Tsahal spingono per andare avanti con la guerra a Hezbollah». Un altro dei figli di Sasson è stato evacuato ormai più di un anno fa dal kibbutz Baram, 500 metri dal confine con il Libano, insieme alla moglie e i quattro figli. «Non credo ci tornerà più. Magari mi sbaglio, ma finché la sicurezza non sarà garantita al nord, non lo vedo ritornare. E ci vorranno anni per farlo».
Il problema, aggiunge a riguardo Luciano Assin, guida turistica e membro del kibbutz Sasa, è che «nessuno, a livello internazionale, vuole veramente prendersi la briga di fermare fisicamente Hezbollah. Fino ad allora rimarranno sempre una minaccia. Non sappiamo quanto durerà questa tregua, ma sappiamo che Hezbollah nel mentre cercherà di riorganizzarsi e riarmarsi con il sostegno dell’Iran». Assin analizza il contesto geopolitico della regione: «Il Libano è un paese costruito su basi artificiali, con equilibri vecchi di 50 anni che non esistono più. Oggi, con gli sciiti molto più influenti rispetto al passato, e una minoranza cristiana ridotta, finché non ci saranno regimi più stabili, la situazione resterà critica. Questa tregua è solo una questione di tempo, perché l’area è profondamente instabile». Dall’altro lato anche lui non nasconde di aver accolto positivamente la notizia del cessate il fuoco. «Ognuno di noi ha qualcuno impegnato al fronte per cui non si può non essere felici di una pausa nei combattimenti». Dei circa 400 residenti kibbutz, aggiunge Assin, circa una sessantina è rimasto a viverci nel periodo del conflitto. «Oggi però la mensa è strapiena, ci saranno almeno cento persone». Un segnale di un ritorno? «Non saprei. Nessuno si illude che sia finita. Io stesso non me la sento di dire a mia figlia, che viveva qui con i suoi bambini: ”Torna, è tutto tranquillo”. La qualità della vita nel kibbutz è alta, ma ogni famiglia deve fare i suoi conti, soprattutto con bambini piccoli. Alla fine, nemmeno Haifa è sicura: ha ricevuto più bombardamenti di noi».

Gli ostaggi e il rapporto con i vicini arabi
Il pensiero di tutti va però anche agli ostaggi. «Noi siamo stremati, ma chissà cosa stanno passando loro. Se sono ancora vivi» , commenta con amarezza Funaro. A Sasa, lo chef coordina un team eterogeneo, composto da ebrei, musulmani, cattolici e drusi. «Non ci sono attriti. Spieghiamo sempre ai nuovi lavoratori di non portare la politica sul lavoro. Qui siamo una famiglia: vogliamo tornare a casa sereni e lavorare in armonia. Anche durante la guerra, è stato così. Anzi devo dire che i miei collaboratori si sono tutti preoccupati per me e per i miei figli chiedendomi come stessero, di avvisarli se tornavano dall’esercito. C’è stata molta empatia». Racconta poi un episodio. «Una mia cuoca cattolica mi ha fatto vedere un video di alcuni soldati israeliani che hanno fatto delle cose stupide in una chiesa in Libano. Era molto offesa. Le ho spiegato che ha ragione, quel comportamento era totalmente sbagliato e sicuramente l’esercito l’avrebbe punito. Tsahal prende molto seriamente questi episodi e li condanna con severità».
Anche Assin conferma il clima pacifico con le comunità arabe circostanti. «Non ci sono mai stati problemi, nemmeno nei periodi più tesi, come durante la seconda Intifada. Qui ci si aiuta reciprocamente, e nel kibbutz, dalla raccolta nei campi alla cucina, lavorano molti arabi. Certo c’è un tacito accordo: non si parla di politica. È un gentlemen agreement che mantiene l’armonia».

Il destino della guerra a Gaza
Se la tregua al nord possa portare a un accordo anche a Gaza è una domanda a cui nessuno sa rispondere. «Non mi pare al momento ci siano i presupposti», sottolinea Sasson. «Per siglare un’intesa devi avere un interlocutore, con chi parli ora a Gaza?». Per Assin anche a Gerusalemme c’è chi non ha interesse a chiudere il capitolo conflitto. «Un accordo significherebbe una resa dei conti politica in Israele. Sarebbe infatti istituita finalmente una commissione indipendente sui fallimenti del 7 ottobre. Ma nessuno al governo vuole affrontare le responsabilità per la débâcle. È tutto intrecciato, ed è difficile essere ottimisti».

Daniel Reichel