7 OTTOBRE – Angelica Calò Livnè: Il cuore della Sicilia che batte per Israele
Dopo più di 400 giorni di guerra, con un’Israele ferita, sanguinante, divisa, che lotta strenuamente per mantenere il suo spirito e per continuare a sopravvivere siamo arrivati a Palermo. «Ti abbiamo sentita alla radio, parlavi di pace e di speranza mentre suonavano le sirene, mentre arrivavano i missili di Hezbollah sulla tua casa al confine con il Libano e abbiamo subito pensato che dovevi essere una delle premiate in ricordo di padre Pino Puglisi, il prete che combatté contro la mafia con coraggio e dedizione verso i suoi ragazzi, per dare dignità, amore e futuro alla gente del suo quartiere, Brancaccio a Palermo. Saremmo onorati se volessi accettare il nostro invito». Il primo pensiero è stato «Mi ani ki elech el paro’ – Chi sono io per andare dal Faraone?», poi di istinto, con gioia e profonda gratitudine, ho detto sì, certamente. «Sono io che devo ringraziarvi per la vostra fiducia e per il vostro coraggio di andare contro corrente in questo momento buio di solitudine per il mio Paese!».
Nel primo giorno del cessate il fuoco, immediatamente la speranza si è fatta largo tra la gente, si è insinuata nei cuori, ha accarezzato le spalle curve dal dolore e dal peso di una guerra senza fine, benedicendo le fronti.
Cosi è Israele: si abbarbica a ogni piccolo raggio di positività e ricomincia la sua lotta per la ricostruzione, per riempirsi dell’energia così urgente per non soccombere. E questo è stato il nostro viaggio in una Palermo effervescente, dove il profumo del pistacchio si mescola ai colori delle danze di strada per denunciare la violenza contro le donne, dove l’oro di Monreale brilla e ispira al Bene preti, vescovi e associazioni di periferia per strappare giovani e non dalla povertà, dalla droga, dall’ingiustizia e dalla disperazione. Gente nobile, che dedica la propria vita e si batte per una Sicilia sana, regina delle bellezze che ha ricevuto dalla natura e da tradizioni antiche.
Un’accoglienza che scalda il cuore
Sono partita con dolori in tutto il corpo, accompagnata da Yehuda, mio angelo custode, con una paura profonda di imbattermi in sorprese spiacevoli da parte di chi si alimenta delle notizie dei media. Ero preoccupata dall’antisemitismo dilagante, devastante che non lascia respiro. Avevo il cuore pesante per i nostri soldati che cadono ogni giorno a Gaza e nel sud del Libano, per i 101 ostaggi in procinto di affrontare un altro inverno in condizioni disastrose, e per il nostro kibbutz abbandonato.
L’accoglienza dei fedeli nella Chiesa diroccata di padre Antonio Garau di Borgo Nuovo direttamente dall’aeroporto Falcone e Borsellino è stata un diluvio di affetto, di empatia profonda verso le nostre storie dolorose del 7 ottobre, sulle donne stuprate, i bambini che hanno assistito all’assassinio dei loro genitori, le famiglie bruciate. Gemma Ocello – di nome e di fatto, un vero diamante grezzo, che splende e illumina al suo passaggio – mi scriveva ormai da mesi per prepararmi alla cerimonia. Saremmo stati in sette: padre Alex Zanotelli, sacerdote comboniano, Gino Cecchettin che con straordinaria forza interiore ha trasformato il dolore per la tragica perdita della figlia Giulia in un esempio luminoso di amore. Andrea Rinaldo, scienziato di fama mondiale e vincitore dello Stockholm Water Prize. Francesco Zavatteri, che ha trasformato il dolore per la perdita del figlio Giulio in un impegno concreto contro le dipendenze, Zenaida Boaventura che con La Casa di tutte le genti ha dato un’opportunità a tante mamme lavoratrici e ai loro figli, creando un luogo di accoglienza e integrazione. E io, messaggera di pace e di speranza in piena guerra.
«La presenza di personalità di tutto il mondo», ha commentato padre Garau, «che vivono la loro vita testimoniando il senso del rispetto e della dignità dell’uomo sono la nostra forza nel credere che le cose possano cambiare, come diceva padre Pino Puglisi».
Nel corso della settimana trascorsa sotto la protezione affettuosa di Gemma e della sua famiglia, ci sono stati momenti di grazia senza fine, di rispetto profondo per il nostro essere ebrei, israeliani e fratelli maggiori. Abbiamo ricevuto manifestazioni di affetto nel Liceo Mamiani di Palermo dove abbiamo presentato uno dei nostri laboratori di Educazione al dialogo attraverso le arti da palcoscenico per 120 ragazzi: «Voi siete la testimonianza vivente di ciò che accade veramente in Medio Oriente dovete raccontare a tutti la verità dietro le immagini che mostrano in televisione!», ha sottolineato Giovanni, professore di storia e filosofia. Uno dei carabinieri che ci ha accompagnato ci ha confidato la sua frustrazione, durante le manifestazioni propal, per chi prova a sostituire la bandiera italiana con quella palestinese. In più, quando affrontano il caos, le forze dell’ordine vengono demonizzate.
Con un giovane libanese a Palermo
Concluderò con uno dei momenti più toccanti di questo viaggio: un testo scritto da Germana Porcasi che ha partecipato a un altro dei laboratori presentati in questi giorni a Palermo:
«Oggi abbiamo partecipato alla lezione di Angelica alla fondazione Fscire.
Angelica esordisce raccontando brevemente del suo kibbutz, degli sfollati, dei missili… A un certo punto prende la parola un ragazzo, si presenta “sono libanese” dice “di Beirut”… tutti trattengono il respiro, abbiamo anche pensato… speriamo non nasca una discussione. Angelica, pronta come sempre, con massima gioia e accoglienza. “Non sai quanto sono felice ed emozionata… il mio kibbutz è proprio davanti al confine con il Libano…”. Lui trattiene a fatica le lacrime raccontando con tanto dolore la paura e la sofferenza che continuano a infliggere ai libanesi. “Abbiamo paura, abbiamo paura… non possiamo dire nulla, ci chiamano sionisti… traditori, ci minacciano… siamo stanchi non ne possiamo più, noi siamo brave persone, non vogliamo il male di nessuno… ma loro… loro ci hanno catapultato 40 anni indietro”. E allora Angelica gli chiede: “Ma questi –«loro»– chi intendi Hezbollah?”. “Si”, dice lui “Hezbollah” e ancora trattiene le lacrime, la voce spezzata, un nodo in gola… Molti dei presenti si asciugano le lacrime che scendono irrefrenabili. Incredibile davvero questo incontro e lo sfogo liberatorio di questo ragazzo, consegnato proprio al cuore di Israele».
E con questo spirito, con queste immagini negli occhi, nell’anima e nel cuore torniamo a casa. Proprio a casa, e dopo più di un anno torniamo a dormire nella nostra stanza da letto con la sua finestra sul Monte Hermon. Ora non ci resta che aspettare con fiducia 60 giorni per rivedere il kibbutz pieno di bambini e Amen, gli abbracci delle madri e le famiglie da tutta Israele che accolgono i loro figli che tornano dall’inferno dei tunnel. Siamo nati per la luce e per la luce combatteremo fino in fondo!
Angelica Calò Livnè