USA – Donne ebree fra misoginia e antisemitismo

«Anche a New York, dove entrambe viviamo, abbiamo spesso assistito a una incredibile mancanza di empatia per le vittime israeliane del 7 ottobre e a una vera e propria ostilità nei confronti di chi le difende». Natalia Mehlman Petrzela e Rachel Schreiber, rispettivamente docente di storia dell’arte, dei media e della cultura e condirettrice dell’Istituto di studi sul genere e la sessualità della New School e docente di storia alla New School e borsista della Carnegie Corporation raccontano così al New York Times di una animosità che arriva a fondere misoginia e antisemitismo negli Stati Uniti dagli onnipresenti tropi quasi cartooneschi delle donne ebree: dalla principessa materialista, alla yenta pettegola fino alla madre prepotente. Ma, scrivono, essere una donna ebrea americana significa di questi tempi trovarsi a vivere un paradosso: essere allo stesso tempo una minoranza vulnerabile e all’interno della cultura dominante, «spesso ci si aspetta che sopportiamo, o addirittura meritiamo, qualsiasi orrore arrivi nella nostra direzione». Mehlman Petrzela e Schreiber ricordano che le prime notizie delle violenze sessuali perpetrate contro le donne israeliane sono state accolte dal silenzio di molte organizzazioni femministe, e quando le prove delle violenze si sono moltiplicate le reazioni sono diventate ancora più insostenibili. Una immagine del corpo devastato di Shani Louk circondato da terroristi armati ha vinto un prestigioso premio fotografico. Amit Soussana, che ha descritto le violazioni subite mentre era prigioniera di Hamas è stata derisa. Disprezzare le donne ebree non è una novità: già un secolo fa il pregiudizio era diffuso, donne ebrea obbligate alla prostituzione erano descritte come “ebree peccatrici” e negli anni Venti alcuni film europei raffiguravano le donne ebree come vampiri o mostri assassini. Negli anni Quaranta Jean-Paul Sartre sosteneva che l’espressione “una bella ebrea” portava “un’aura di stupro e di massacro. La ‘bella ebrea’ è colei che i cosacchi sotto gli zar trascinavano per i capelli per le strade del suo villaggio in fiamme”. Nel 1979 la femminista Andrea Dworkin citava proprio Sartre per sostenere che una simile misoginia antisemita era paradigmatica dell’oggettivazione alla base della pornografia. Sono dinamiche che perdurano e i pregiudizi nei confronti delle donne ebree paiono essere ammessi. “Intersezionalità”, il termine coniato nel 1989 dalla studiosa di diritto Kimberlé Crenshaw, spiega come sessismo e razzismo si sovrappongano e possano rafforzarsi a vicenda con un risultato superiore alla somma delle sue parti. Ma l’intersezionalità è spesso utilizzata per collegare l’antirazzismo con il postcolonialismo e con il movimento propal, trasformandosi in un quadro di riferimento che rischia di perpetuare i tropi antisemiti sul potere degli ebrei. Concludono le autrici che le donne ebree sono un bersaglio facile: abbastanza bianche da essere degne di disprezzo, ma non abbastanza da essere protette contro idee razziste e sessiste che dovrebbe essere smantellare e non che perpetuare in nuove insidiose forme.