SCAFFALE – “Sette ottobre”, cronaca dell’orrore
Nel segnalare o recensire un libro, si dovrebbe naturalmente commentare, elogiare o criticare il modo in cui esso è scritto, illustrare e interpretare il maggiore o minore contributo che esso può fornire sul piano della conoscenza e dell’elaborazione di pensiero, valutare il suo maggiore o minore pregio sul piano culturale, artistico, scientifico, dottrinario.
Spesso i libri raccontano delle storie, a volte vere, a volte inventate. In entrambi i casi, essi possono più o meno coinvolgere, avvincere, emozionare, o lasciare sostanzialmente indifferenti, o anche annoiare. Si può piangere o ridere per delle vicende che si sa essere frutto di pura fantasia, e si può provare un atteggiamento di disinteresse verso il racconto di accadimenti che sono realmente avvenuti. Ed è giusto, è umano che sia così. Nessuno sa come si siano consumati gli ultimi giorni trascorsi da Ugolino e dai suoi quattro figli e nipoti nella “torre delle fame” di Pisa, eppure, è veramente difficile non restare sgomenti nel leggere il XXXIII Canto dell’Inferno dantesco. Allo stesso modo, i libri di Erodoto, di Tito Livio, di Tacito, di Churchill, di Trotzky espongono tragedie vere, morti vere, stragi vere, ma non è detto che, per questo, il lettore debba sentirsi automaticamente coinvolto sul piano emotivo.
A volte, la “verità” della storia sembra chiedere, implorare, pretendere di essere ascoltata, raccolta, narrata, tramandata. Nel momento di soccombere, di essere travolte dal male, sull’orlo dell’abisso, le vittime, i “sommersi”, ormai consce del proprio destino, sembrano rivolgere un disperato appello ai sopravvissuti, ai “salvati”: non ci dimenticate! Spesso questo grido si perde nel nulla. Ai sommersi non è riservata solo l’oltraggio, la violenza, la morte, ma anche l’oblio. Qualche volta, invece, la disperata implorazione viene raccolta da qualcuno. La sorte della vittima non cambia, ma, almeno, ci sarà qualcuno che potrà conoscere, ricordare, raccontare. Servirà, questo, a qualcosa? Probabilmente no. La storia, come disse Gramsci, è una maestra senza scolari, non è affatto detto che il racconto della violenza serva a evitare il suo ripetersi. Potrebbe, anzi, chi sa, avere un effetto emulativo, “pubblicitario”. Lo hanno fatto loro, facciamolo anche noi.
Quel che è certo è che chiunque compia questa opera di testimonianza contribuisce a salvare almeno in minima parte la coscienza di un’umanità che sembra godere nello sprofondare in un nero precipizio, nell’abisso di una voragine nella quale le parole “giustizia”, “pietà”, “solidarietà” non hanno alcun diritto di asilo. Bastano 36 Giusti, dice la tradizione, per salvare il mondo.
Queste considerazioni mi vengono suggerite dalla lettura del libro Sette ottobre 2023. Il giorno più lungo, di Sharon Nizza (prefazione di Enrico Franceschini, GEDI, 2024, pp. 189, euro 12,90, distribuito con il quotidiano la Repubblica). Confesso di avere avuto difficoltà a leggere il libro, anzi, di non averne neanche completato la lettura, tanto sono rimasto sconvolto, inorridito dal racconto minuzioso e dettagliato degli orrori del “giorno più lungo”. La Nizza, evidentemente molto più forte e coraggiosa di me, attraverso una meticolosa raccolta e selezione delle molte testimonianze disponibili, ha offerto ai lettori – e alle future generazioni – un resoconto estremamente puntuale, vivido dell’accaduto, dell’indicibile scempio consumatosi in quel giorno maledetto.
L’autrice non usa nessun aggettivo, nessun commento per suggestionare il lettore, per puntare il dito verso i carnefici assassini, né per veicolare pietà ed empatia verso le vittime. Lascia parlare i fatti, da soli. In un certo senso, autori del libro sono i mostri satanici che, in poche ore, hanno massacrato 1.204 persone, stuprato e mutilato decine di donne e anche alcuni cadaveri, gettato in un forno acceso un bambino vivo, rapito 251 civili innocenti, tra cui bambini di meno di un anno e anziani di 80 anni. Per poi fuggire, con le preziose prede, nelle loro tane, promettendo di tornare presto.
Nel libro è descritto l’enorme trauma di un intero Paese, la presa di coscienza di qualcosa che, anche agli occhi di chi, da sempre, è abituato a vivere in una condizione di perenne pericolo, appariva comunque inimmaginabile. Neanche le vittime, nel momento in cui subivano la bestiale aggressione, erano consapevoli della portata dell’evento, tutti pensavano che l’attacco fosse circoscritto alla loro singola comunità, nessuno sapeva delle proporzioni della tragedia. Nella loro completezza, esse sarebbero state ricostruite solo diversi giorni dopo.
La giornalista, dando prova di alta correttezza professionale, racconta tutto, ma non si sofferma sui particolari atroci delle violenze, in particolare quelle sulle donne. Fermandosi solo sulla narrazione del giorno maledetto, non parla neanche di quella che sarebbe stata la successiva reazione del mondo, che ben conosciamo. Quando il volume è stato pubblicato, quasi un anno dopo l’eccidio, il popolo martoriato era già circondato da un gelido muro di solitudine, quando non di odio, mentre molti inneggiavano ai carnefici come eroi e vendicatori.
Ma questa è un’altra storia, per un altro libro.
Francesco Lucrezi, storico