ANNIVERSARI – La storia degli ebrei è la storia della Polonia

«È importante chiarire subito che la mia è una posizione eccentrica: visitare Polin è un’esperienza bellissima per i visitatori, e importante, e nel Museo della storia degli ebrei polacchi c’è un investimento davvero importante di sforzi, idee ed energie da parte degli studiosi polacchi, sia ebrei e non ebrei. Ma io mi devo augurare che il lavoro che c’è dietro gli allestimenti della permanente così come delle mostre temporanee sia compreso così bene da non rendere esaustiva l’esperienza dell’ebraismo polacco».
Così lo storico Andrea Bienati, docente di Storia e Didattica della Shoah ed esperto per i percorsi di formazione sulla Storia della Shoah e delle comunità ebraiche in Polonia, racconta la sua impressione del museo costruito nel luogo in cui si trovava il ghetto di Varsavia. Il museo ha appena compiuto dieci anni.
«È così ben fatto da esaurire moltissime delle opportunità che uno potrebbe avere per scoprire quelle tracce, non sempre facili a trovarsi, di un passato importante e fiorente, travolto dalla Shoah ma nonostante tutto non cancellato». Nel 2016, nell’ambito di un approfondimento dedicato anche a Polin, Pagine Ebraiche scriveva: «I musei ebraici hanno un ruolo sempre più importante in una società che si confronta con le minoranze con fatica sempre maggiore. I grandi luoghi deputati a raccontare le tradizioni e la cultura dell’ebraismo si trasformano in vere e proprie istituzioni dedite alla formazione che puntano sui giovani e soprattutto sui giovanissimi ».
Ora, a distanza di anni, la struttura minimalista del museo, progettata dai finlandesi Rainer Mahlamäki e Ilmari Lahdelma, occupa uno spazio importante nel tessuto cittadino, anche se, ricorda Bienati: «È un museo bellissimo, è vero, ma non dimenticherò mai la sensazione che ho avuto la prima volta che sono arrivato in quella piazza piena di vuoto, quando c’era solo il monumento agli eroi del ghetto di Nathan Rapoport. Aveva un impatto devastante». Il museo attuale festeggia il suo decennale (e 2,7 milioni di visitatori da tutto il mondo) con una serie di iniziative, declinate su dieci idee, una per anno. Si parte dai 1.000 anni di storia degli ebrei polacchi. O vengono ricordate la possibilità di passeggiate lungo la via Zamenhofa dell’anteguerra, l’arteria principale del cosiddetto Quartiere Nord, abitato soprattutto da ebrei, ricostruita in una delle gallerie del museo. L’edificio stesso, sorprendente, anche per il contrasto fra la linearità dell’esterno e la complessità degli spazi interni, ospita anche l’occasione per assaggiare la cucina ebraica, e si va dalle ricette della Varsavia di inizio XX secolo ai piatti israeliani. I bambini, poi, hanno un percorso studiato per loro, con audioguide elaborate da esperti di didattica.
Le mostre vanno da quella sulle opere di Wilhelm Sasnal, uno dei più illustri artisti polacchi contemporanei, a (post)JEWISH… Shtetl Opatów Through the Eyes of Mayer Kirscheblatt, che racconta la storia di uno shtetl prebellico (ed è visitabile fino al 16 dicembre). Non mancano gli spazi dedicati agli scrittori e a chi è parte non solo della storia ebraica ma della cultura del paese: dall’attrice Ida Kamińska, al medico e pedagogo Janusz Korczak alla scultrice Alina Szapocznikow.
Riprende Bienati: «È importante ricordare la Polonia come è stata, un luogo fondamentale per la storia, la cultura e la religione, un crocevia di culture ed esperienze. Poi, certo, celebrando la vita di prima, bisogna ricordare la serie per di elementi drammatici, a partire dai pogrom in epoca zarista per arrivare fino alla Shoah, che nel paese ha avuto numeri devastanti. Ma è anche una terra piena di vita. Per questo va celebrata, partendo da quella parte del museo che racconta il ritorno alle case, il ritorno alla vita». È parte di un processo che ha portato gli ebrei polacchi ad affermare la propria esistenza con forza, con la volontà di ricordare che ci sono, che sono parte di una storia, di una terra che la storia polacca, non solo la storia degli ebrei. Spiega Bienati che la Polonia ha fatto un cammino di consapevolezza, anche pubblicando tantissimo a partire dal 1944, con le memorie di sopravvissuti che molto hanno contribuito a riportare lo sguardo sulle sfaccettature di un paese che non è monolitico.
Va ricordato che gli stessi shtetl erano sì dei villaggi, ma non esclusivamente ebraici, come passato ora nella narrazione comune, erano realtà in cui convivevano una parte ebraica e una non ebraica della popolazione, parte di una comunità che Bienati definisce come “meravigliosamente frastagliata” e ricca di tante anime e di tanti approcci. Motivo in più per non accontentarsi, sottolinea, della ricchezza di spunti e materiali che offre il museo e avventurarsi alla ricerca delle tracce lasciate da un ebraismo che non è solo ancora vivo, ma ha anche tanto da raccontare.

Ada Treves

(Nella foto di Daniel Ciesielski un esterno di Polin, il Museo della storia degli ebrei polacchi a Varsavia)